C’era una volta la boxe. O meglio, la boxe c’è ancora, sono i campioni che non ci sono più. La noble art è in crisi. Cassius Clay, Carlos Monzon, Roberto Duran, Ray Sugar Leonard, Nino Benvenuti, Mike Tyson i guantoni li hanno appesi al chiodo da un bel po’ di tempo. L’ultimo campione che la boxe italiana ricorda è Patrizio Oliva, il boxeur la cui scherma pugilistica non era seconda a nessuno. Dopo aver fatto il commentatore e il coach, visto che la tv non trasmette più match e che di campioni da allenare ce ne sono sempre di meno, pur di non finire ai giardinetti a dar da mangiare ai piccioni, Oliva ha deciso di rimettersi in gioco. In un’altra sfida che appassiona, l’Isola dei Famosi. Sarà uno dei 12 naufraghi del reality targato per la prima volta Mediaset e che andrà in onda su Canale 5 dal 26 gennaio.
LA CRISI
Il fatto che Oliva sia un vip dimenticato è un primo indizio. Il secondo è il dato di ascolto della boxe in tv: irrisorio (intorno all’1% di share). Terzo indizio: tra i professionisti che salgono su un ring non ci sono più campioni. I dilettanti ancora qualche nome lo indicano su cui puntare l’interesse. Le Olimpiadi, del resto, sono sempre un obiettivo e una medaglia può cambiarti la vita. Ma nessuno dedica più interamente ogni propria risorsa alla carriera professionistica. Perché? “Non c’è più voglia di fare sacrifici per tanti anni – sottolinea Massimo De Luca, ex direttore di Raisport e di SportMediaset – oggi i giovani preferiscono partecipare ai numerosi talent, anche perché non si deve soffrire tanto. E la partecipazione non necessita di ore e ore di sudore”. Eppure oggi, con la recessione, è tornata la fame. “Ma non la voglia di farsi riempire la faccia di pugni per una manciata di euro”.
Le palestre sono piene. La pre-pugilistica è molto frequentata. Tuttavia un conto è l’allenamento, un altro è il match. Nell’epopea della boxe il ring veniva addirittura messo al centro dello Stadio. Non c’è solo il Madison Square Garden ad aver segnato la storia. In Italia negli anni Sessanta si combatteva a San Siro. Fu lì che Duilio Loi divenne campione mondiale dei pesi welter leggeri. Oggi c’è rimasto solo il “non sconosciuto” Clemente Russo che il 30 gennaio cercherà di conquistare contro il russo Egorov il biglietto per Rio 2016, in un match valido per l’Aiba Pro Boxing (un’altra sigla che ha contribuito a complicare la vita dell’appassionato).
ADDIO GUADAGNI
Del resto la boxe si è complicata la vita con lo spezzatino di pesi e categorie e con le innumerevoli sigle delle organizzazioni. Che hanno generato confusione, nonché sfornato tanti detentori dei titoli. Non un vero campione del mondo, sui cui investire per farlo diventare fenomeno popolare. Nessun mito, solo tante comparse che hanno fatto fuggire gli sponsor e le tv. In pratica hanno ammazzato l’evento.
“Ed è scomparsa pure la prospettiva di guadagno – aggiunge De Luca – essendosi venuto a creare un circolo vizioso: meno eventi significa meno sponsor. E di conseguenza borse più basse e meno appeal per il grande pubblico. In tv la fortuna di un avvenimento sportivo – conclude De Luca – la fanno: la qualità tecnica dell’evento, l’importanza della posta in palio e la passione. Grazie a quest’ultima si spiega l’interesse pure per le partite di calcio meno importanti della squadra del cuore. La posta in palio fa sì invece che alle Olimpiadi vengano seguiti anche gli sport cosiddetti minori. Un esempio? Il curling ai Giochi di Torino. Divenne un fenomeno perfino televisivo”.