di Vittorio Pezzuto
Ce l’ha fatta. Al termine di un incontro con il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, il governatore della Puglia Nichi Vendola ha finalmente trovato il tempo e soprattutto il buon gusto per rassegnare le sue dimissioni da deputato della Repubblica. Il suo annuncio di ieri non passerà alla storia, restando confinato nel perimetro più angusto della cronaca del malcostume politico. «Mi sto recando a Montecitorio per formalizzare un atto che esiste nei fatti: già all’indomani delle elezioni ho manifestato l’intenzione di restare presidente della Puglia. C’è stata una strumentale e infondata campagna di stampa, con menzogne e meschinità sul fatto che avrei potuto sommare emolumenti differenti» ha provato a denunciare con occhio incattivito, e per un attimo ci è sembrato di rivedere Antonio Di Pietro lamentarsi dell’inchiesta di Report sulle sue proprietà immobiliari.
Vogliamo rassicurarlo: nella nostra campagna sugli incompatibili, noi non abbiamo mai insistito demagogicamente sul tema pur importante della doppia retribuzione. Ci bastava e avanzava lo scandalo di un governatore che per accumulare una seconda poltrona non esitava a scavalcare come un impaccio il secondo comma dell’articolo 122 della Costituzione. «Ma non ho mai avuto nessuna intenzione di restare deputato!» ha aggiunto con la stizza dell’incompreso. E allora perché mai si è voluto candidare alla Camera? E perché ha atteso più di un mese per rassegnare le dimissioni da un incarico che adesso ammette di non aver mai desiderato?
Una strategia incomprensibile
Vendola è un abile contorsionista della politica nonché un suggestivo acrobata della parola che di tanto in tanto battezza neologismi dal retrogusto arcaico. Comprendere cosa voglia per sé e per il suo partito è però abbastanza semplice, occorre solo dotarsi di un rudimentale decoder postcomunista. Eppure stavolta, lo ammettiamo, non riusciamo davvero a capire cosa si proponesse di fare indossando (anche) l’abito stazzonato del deputato. Voleva intrattenere rapporti ravvicinati con gli altri protagonisti politici? E’ un leader di caratura nazionale, per farlo non gli serviva certo uno scranno a Montecitorio. Coltivava l’ambizione legittima di partecipare, in qualità di grande elettore, alla scelta del nuovo Presidente della Repubblica? Avrebbe potuto tranquillamente soddisfarla facendosi eleggere come uno dei tre delegati della Puglia che andranno a integrare il Parlamento riunito in seduta comune. Una corretta via istituzionale che in questi giorni è stata infatti seguita da quasi tutti gli altri governatori: Gianni Chiodi (Abruzzo), Vito De Filippo (Basilicata), Giuseppe Scopelliti (Calabria), Stefano Caldoro (Campania), Vasco Errani (Emilia-Romagna), Nicola Zingaretti (Lazio), Claudio Burlando (Liguria), Roberto Maroni (Lombardia) Ugo Cappellacci (Sardegna) e Katiuscia Marini (Umbria). Ma questo adesso non gli è più possibile, dal momento che la scorsa settimana il suo Consiglio regionale ha già votato di mandare a Roma Onofrio Introna (Sel), Antonio Maniglio (Pd) e Nicola Marmo (Pdl). Col bel risultato che il prossimo 18 aprile gli sarà negato l’accesso nell’emiciclo di Montecitorio e dovrà ridursi a seguire in televisione il lento andamento degli scrutini.
E pensare che ancora poche ore prima delle sue dimissioni, nell’entourage di Sel alla Camera era tutto un giustificare il suo cattivo esempio. Sbandierandoci un argomento capzioso sostenevano infatti che, poiché la Giunta per elezioni non è ancora stata istituita, le sue dimissioni non avrebbero comunque comportato automaticamente la nomina del deputato subentrante. E che così facendo, il loro leader avrebbe inflitto un piccola ferita al plenum del collegio elettorale del prossimo Presidente della Repubblica. Un empasse reale che però proprio oggi potrebbe essere superato dalla Giunta del Regolamento se verrà approvata la proposta di prorogare i poteri della Giunta provvisoria delle elezioni, quella che il primo giorno della legislatura serve a ratificare i subentri. A quel punto cadrebbe ogni alibi residuo.
L’elenco degli irriducibili
Con il ritiro annunciato del loro leader maximo, è possibile che nel giro di pochi giorni la residua pattuglia dei parlamentari incompatibili decida di rivolgere contro se stessa l’arma del buon senso e del decoro istituzionale. Nella tabella a fianco pubblichiamo per la prima volta tutti i loro nomi e confidiamo che già in queste stesse ore si stiano registrando altre diserzioni. Gli ultimi a mollare la loro seconda poltrona regionale sono stati i parlamentari toscani Andrea Maciulli e Caterina Bini (entrambi del Pd), l’emiliano Matteo Richetti (Pd), il marchigiano Paolo Petrini (Pd), il trentino Mauro Ottobre (Gruppo Misto-SVP), i veneti Andrea Causin (Scelta Civica) e Laura Puppato (Pd), i piemontesi Stefano Lepri e Giacomino Taricco (entrambi del Pd) e l’aostano Albert Laniece (Union Valdotaine). Non ci resta che sperare che questa vicenda incresciosa termini al più presto e magari che a qualcuno venga in mente di ripristinare la vecchia legge sulle incompatibilità. Quella che negli anni Novanta prevedeva la decadenza da consigliere regionale nel momento stesso in cui veniva accettata formalmente la candidatura al Parlamento. Altri tempi, speriamo futuri.