Tenere aperti tutti i canali. L’obiettivo di Benjamin Netanyahu in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti sembra essere soprattutto questo, oltre a calmierare le tensioni dopo le operazioni a Gaza, ovviamente. Una porta aperta a Joe Biden e a Kamala Harris e una a Donald Trump. Con un tentativo di convincere anche il Congresso statunitense. Netanyahu sarà il primo capo di Stato a incontrare Biden dopo il ritiro dalla corsa alla Casa Bianca, ma il suo pensiero è rivolto a ben altro perché “è importante che i nemici di Israele sappiano che America e Israele sono uniti, oggi, domani e sempre”.
Un po’ come a dire, chiunque vinca le prossime elezioni. Per il premier israeliano è la prima visita in quattro anni negli Stati Uniti e il primo viaggio ufficiale all’estero dopo il 7 ottobre. L’incontro più problematico è proprio quello con Biden, che più volte ha ripetuto il suo scontento sulla gestione della guerra a Gaza. “Sarà un’opportunità per ringraziarlo per le cose che ha fatto per Israele in guerra e durante la sua lunga carriera politica”, afferma però Netanyahu per provare a stemperare lo scontro e rasserenare gli animi.
Netanyahu guarda a destra e a sinistra
Come detto, il premier israeliano si muoverà su più fronti. Innanzitutto quello democratico, oggi diverso da poche ore fa. Incontrerà anche Kamala Harris, vice di Biden e probabile candidata alle presidenziali. Domani ci sarà invece il discorso al Congresso Usa, con la presenza anche di alcuni ex ostaggi del 7 ottobre. Il premier di Tel Aviv parlerà di fronte a deputati e senatori, ma già qualcuno – almeno una decina – ha annunciato che non sarà presente proprio in polemica per l’offensiva a Gaza. Poi Netanyahu passerà al tentativo di guardare anche dall’altra parte, sul fronte repubblicano guidato da Donald Trump. Colui che da presidente spostò l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme e che fu l’artefice degli Accordi di Abramo.
Le distanze con Biden su Gaza e la vicinanza di Trump a Israele durante il suo mandato sembrano indicare chiaramente quali possono essere le preferenze del premier, che comunque non si sbottonerà in alcun modo sul tema, conscio dell’importanza dell’equilibrismo in vista di un voto, a novembre, ancora apertissimo. Non a caso, Netanyahu garantisce che “chiunque sarà scelto come prossimo presidente dal popolo americano, avrà Israele come indispensabile e più forte alleato in Medio Oriente”. Il vero compito di Netanyahu in questo viaggio è quello di riportare il sereno nei rapporti con gli Stati Uniti, dopo le tensioni che da mesi proseguono con una guerra a Gaza ben più lunga e violenta di quanto l’amministrazione Usa ritenga accettabile.
La speranza, comunque, per il premier israeliano è quella di mantenere l’assistenza e il sostegno del suo più importante alleato. Con Biden non si incontra da ottobre. Altri tempi, completamente diversi: erano da poco passati il 7 ottobre e la strage di Hamas e a Gaza l’operazione non era ancora iniziata con questa intensità. In più anche negli Stati Uniti tutto è cambiato rispetto alla questione mediorientale, con un malcontento molto più alto da parte di una fetta della popolazione e le elezioni che tengono in bilico il presidente Usa, consapevole di dover stare fare l’equilibrista tra il supporto a Israele e il malcontento – quando non vere e proprie proteste – per le troppe vittime civili nella Striscia.
Il fronte bellico e quello interno
Durante il viaggio negli Stati Uniti non si potrà parlare solo della guerra a Gaza e del sostegno statunitense agli attacchi che il governo israeliano continua a portare avanti nella Striscia. Incombono, innanzitutto, nuove minacce come quella degli Houthi yemeniti, più concrete che mai in questi ultimi giorni. E, ovviamente, non si potrà non parlare di trattative sugli ostaggi e sul cessate il fuoco: il premier israeliano ha dalla sua l’autorizzazione, fornita alla delegazione israeliana, di tornare in Qatar e riprendere le trattative. Proprio il tema che, molto probabilmente, rimarcherà più volte nel suo discorso al Congresso.
Il viaggio statunitense serve al premier israeliano anche per rafforzare la sua posizione in patria, decisamente traballante. Nelle piazze le contestazioni aumentano, insieme alle richieste di dimissioni per il suo governo, soprattutto con il forte pressing delle famiglie degli ostaggi. Sempre più contestata la sua linea dura, con l’opposizione e il suo ex alleato Benny Gantz che lo accusano di non aver voluto trovare un accordo su Gaza e, di conseguenza, sul rilascio degli ostaggi prima del suo viaggio. Nella Striscia gli ostaggi, ma non tutti vivi, sarebbero 116 circa. E fare in fretta è necessario per riportarli indietro sani e salvi. Solo ieri è stata confermata la notizia del decesso di due persone rapite, i cui corpi sono ancora in mano ad Hamas. Sono 44 i prigionieri dati per morti.