Con la tragedia ancora fresca in mente e lo sguardo perso nel vuoto, hanno trovato il coraggio per raccontare il dramma dell’affondamento del loro barcone a largo di Cutro, nel crotonese, ai loro soccorritori.
La Procura ha raccolto le voci dei superstiti del naufragio di Cutro. Resta al centro il nodo dei soccorsi partiti troppo tardi
C’è chi fissa il vuoto e resta immobile perso tra i propri demoni, chi piange cercando di esorcizzare un dolore indicibile e chi, pur figurando tra i superstiti, sa che ha perso tutto nel naufragio di domenica scorsa in cui hanno perso la vita almeno 64 persone. Tutti loro, partendo dalla Turchia, avevano in comune la speranza di costruirsi una futuro migliore mentre ora si ritrovano a chiedersi: “Dove sono i nostri figli? Siamo venuti fino a qui per vederli morire. Non si può resistere ad un dolore così intenso”. Poco distante un ragazzo a uno dei soccorritori che cerca di tranquillizzarlo, racconta singhiozzando “la mia sorellina è andata giù nel mare. Era accanto a me e ad un certo punto non l’ho vista più. Adesso è su, nel cielo”.
Sembra impossibile trovare qualcuno che domenica non abbia perso qualche persona cara. Nel Centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, dove lavora un team specializzato di Medici senza frontiere nell’ambito del progetto “People on the move”, le storie sono tutte accomunate da un dolore lancinante.
Come quello di un ragazzo di 22 anni che ha visto morire di freddo il fratellino di 6 anni e ai suoi soccorritori racconta quei tristi attimi: “L’ho adagiato su un relitto della barca e poi l’ho visto spegnersi piano piano per ipotermia”. Ma è proprio dal racconto dei superstiti che la Procura, la quale ha già aperto un fascicolo, spera di capire cosa sia accaduto e chi siano i responsabili che hanno programmato e condotto questa fatale traversata del Mediterraneo.
“Nella stiva della barca ammassati in più di 150. Il capo era un turco tatuato”
Come riporta Adnkronos sul proprio sito, nei verbali viene dato conto di una situazione ben peggiore di quella che si potrebbe pensare visto che tra i tanti racconti strazianti finiti nel provvedimento di fermo ai presunti scafisti, c’è quello di un giovane che spiega come “nella stiva della barca ammassati in più di 150. Il capo era un turco tatuato”.
Insomma il barcone era pieno oltre ogni limite tanto che il ragazzo, il quale ha fornito agli inquirenti l’identikit degli aguzzini, spiega che gli scafisti “che gestivano la folla, ci facevano salire per respirare per poi farci scendere sotto la barca”. Proprio il presunto leader è diventato l’oggetto principale dell’attenzione degli inquirenti visto che ne chiedono conto, sempre secondo quanto riporta Adnkronos: “Era un turco che aveva un tatuaggio sullo zigomo destro”, “non guidava ma dava ordini agli altri componenti dell’equipaggio. Lui era sempre seduto. Poi c’erano due pakistani, uno che era quello che ha gestito lo spostamento da Izmir alla prima barca”.
Il reclutamento su Facebook e la figura di un intermediario
Proprio dagli atti emerge anche la figura di un intermediario. A rivelarlo è un ulteriore superstite che spiega come lasciando la Siria e arrivando in Turchia, dopo otto anni di duro lavoro e nella speranza di ritagliarsi un futuro migliore, è finito per entrare in contatto con l’organizzazione di queste traversate della morte. Sempre nei verbali si legge che “dopo tanti tentativi andati a vuoto per arrivare in Italia in cui sono stato arrestato, in questa ultima occasione, tramite Facebook ho contattato tale Abo Naser, palestinese conosciuto tramite un amico il quale ha organizzato questo viaggio”.
Una storia, quella del reclutamento attraverso il noto social network, che è stata ribadita da tanti altri naufraghi. Tutti loro, provenendo da diverse parti della Turchia, si sono ritrovati in una casa a Izmir dopo una lunga traversata all’interno di un camion con almeno altre cento persone stipate in pochissimo spazio. Insomma il carico umano è stato trasportato senza scrupoli, in condizioni ben peggiori di quelle che si usano con il bestiame.
Arrivati a Izmir, si legge ancora sul sito di Adnkronos, “ci siamo incamminati per circa tre ore in un bosco sino ad arrivare presso una spiaggia. Ci hanno raccolti tutti in un punto ed abbiamo aspettato un po’ fino a quando qualcuno ha fatto arrivare la barca con un segnale luminoso. È arrivata una prima imbarcazione e siamo stati fatti salire”. Ma la traversata per trovare la fortuna e sfuggire alla miseria, non va come previsto. Il superstite continua il racconto spiegando che “iniziato il viaggio, dopo alcune ore la barca ha avuto un’avaria ed il personale e l’equipaggio hanno fatto arrivare una seconda imbarcazione sulla quale siamo stati fatti salire”.
“La seconda imbarcazione era guidata da un turco e da un siriano. Ricordo che il siriano era di corporatura robusta ed era anche un meccanico. Poi c’era anche un altro turco che aveva un tatuaggio sullo zigomo destro che non guidava ma dava ordini a tutta l’imbarcazione. Mi è sembrato una sorta di capo perché dava gli ordini agli altri. Poi c’erano due pakistani”. Ma la sfortuna non è finita perché anche la seconda imbarcazione entra in avaria proprio quando la meta era a un passo.
La barca si è spezzata in due e lentamente è affondata
“Circa quattro ore prima dell’urto della barca è sceso nella stiva uno dei due pakistani e ci ha detto che dopo tre ore saremmo arrivati a destinazione. Lui si è ripresentato un’ora prima dello schianto dicendoci di prendere i bagagli e prepararci a scendere che eravamo quasi arrivati. All’improvviso il motore ha iniziato a fare fumo, c’era tanto fumo e puzza di olio bruciato” conclude il racconto del ragazzo. A quel punto la situazione è degenerata con la folla in preda al panico, la barca che si spezza in due e lentamente affonda mentre il turco e altri due scafisti si danno alla fuga salendo a bordo di un gommone d’emergenza. Sempre dagli atti dell’inchiesta, spunta anche un nuovo retroscena.
Stando a quanto riferito dai carabinieri che sono intervenuti sulla spiaggia di Steccato di Cutro, subito dopo la tragedia ci sarebbe stato un parapiglia. Cercando di capire cosa fosse successo sarebbe emerso un tentativo di linciaggio da parte dei superstiti nei confronti di uno degli scafisti che, probabilmente nel tentativo di eludere le forze dell’ordine che alla fine lo hanno fermato, stava provando a nascondersi tra i naufraghi.