Sono ben 88 le pagine della relazione finale della Commissione d’inchiesta, proposta da 30 consiglieri regionali il 15 aprile 2020, sulla gestione della prima fase del Covid, quando la Lombardia aveva il più alto numero di casi in Europa e nel mondo rispetto al numero di abitanti ed è risultata la regione italiana più duramente colpita dalla pandemia. E questa è solo quella della minoranza in Consiglio, composta da Partito democratico e Movimento 5 Stelle, che avevano anche chiesto di estendere il periodo di analisi a uno spettro temporale più ampio. Richiesta respinta dalla maggioranza, che ha preferito evitare si andasse a scavare ancora più a fondo nelle inefficienze della sanità lombarda. Eppure, anche analizzando soltanto quei pochi mesi, i più difficili della pandemia, il quadro che emerge dalla relazione, almeno da quella della minoranza, è a dir poco desolante.
La relazione della Commissione d’inchiesta sui Morti di Covid in Lombardia
La Regione ignorava le circolari del Governo
Il primo problema che ha portato la Lombardia a essere la prima regione per morti di Covid, secondo la relazione, è che “l’amministrazione regionale aveva dato agli ospedali indicazioni diverse da quelle del Ministero per la gestione dell’epidemia“. E questo lo avevano denunciato, ben prima della fine di febbraio 2020, molti dirigenti medici. E dopo il caso di Codogno, il primo italiano risultato positivo al virus, nonostante il Ministero avesse inviato precise indicazioni su come monitorare gli eventuali contagi, la Regione in una mail inviata alle ore 18.28 del 25 febbraio 2020, “si discosta improvvisamente dalle indicazioni del ministero (e Consiglio Superiore di Sanità) in ben due punti fondamentali” circa l’effettuazione del test anticovid. I medici negli ospedali si ritrovanono dunque ad aver ricevuto due direttive molto diverse tra loro, senza sapere quale delle due debbano applicare, posto che sono entrambe ufficialmente valide. Ne consegue che la collaborazione, come ha riscontrato la Commissione d’inchiesta, fra Regione e Governo è stata pari a zero.
Di fronte a questa situazione, l’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva affermato che, qualora il coordinamento tra i sistemi sanitari non fosse in grado di contenere il dilagarsi del virus, il Governo sarebbe stato pronto ad avocare a sé la gestione della sanità. Di fronte a questa affermazione “il governatore Attilio Fontana – specifica la relazione – ha reagito in maniera polemica e provocatoria”, sostenendo che quelle di Conte fossero “parole in libertà che mi auguro siano dettate dalla stanchezza e dalla tensione di questa emergenza”. Audito in Commissione il Governatore della Lombardia ha però negato che ci siano stati contrasti con il Governo sulla gestione della pandemia. Peccato che perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia riscontrato una difficoltà organizzativa in Italia dovuta al fatto che Governo e Regione Lombardia fossero di colore politico diverso. In uno scambio di mail fra Francesco Zambon, coordinatore della riposta OMS Covid in Italia al tempo della prima ondata, e il Direttore Regionale OMS Europa Hans Henri P. Kluge, in cui si sosteneva la necessità di chiudere i confini della Lombardia, si inserisce, infatti, anche Ranieri Guerra, Direttore Vicario Generale dell’OMS, dicendo che “l’OMS non dovrebbe intervenire nella richiesta poiché Lombardia, Veneto e Piemonte fanno capo (all’epoca della prima ondata) a partiti dell’opposizione” rispetto al governo nazionale.
Fontana non rispose neanche ai medici
La Regione Lombardia non ha ignorato soltanto le comunicazioni che arrivavano dal Governo. Il 4 febbraio 2020 la Federazione Italiana dei Medici di Famiglia scrive a Fontana per chiedere “di verificare l’avvenuta fornitura ai medici di medicina generale delle mascherine di tipo FFP2, del camice impermeabile a maniche lunghe non sterile e dei guanti monouso e di tutti gli strumenti necessari a garantire loro la sicurezza durante lo svolgimento delle loro funzioni”. Benché con la trasformazione delle ASL in ATS non fosse stato stabilito con precisione chi dovesse occuparsi dell’aggiornamento del piano pandemico regionale, da questa comunicazione appare “evidente fosse precisa responsabilità della Regione fornire agli operatori del settore ed in particolare nel caso in esame ai Medici di Medicina Generale i DPI necessari”. Ma – rivela la relazione “non risulta che sia mai stato dato un riscontro alla comunicazione del 4 febbraio 2020 o che sia mai stato attivato un percorso di ricerca e fornitura di DPI”.
Nonostante questo, però, durante le audizioni in commissione, i Direttori Generali di ATS e ASST, nominati quindi dalla Regione, hanno unanimamente negato il fatto che la carenza di DPI fosse un problema, “cosa smentita però da numerose testimonianze di operatori sanitari dentro e fuori dagli ospedali”. Ma smentita soprattutto dall’evidenza che nella prima fase dell’emergenza pandemica i medici deceduti nell’esercizio delle loro funzioni per Covid in Italia sono stati in gran parte Medici di Medicina Generale e guardie mediche, “i quali – si legge – sono stati chiamati a combattere contro il virus a mani nude, senza mascherine, guanti e i più elementari dispositivi di protezione individuale”.
Sprecati i soldi per l’ospedale in Fiera
Altra peculiarità lombarda nella gestione della pandemia è stata la decisione di non dedicare strutture unicamente ai pazienti Covid, con l’istituzione dei cosiddetti Covid Hospital. Strutture che in altre regioni, come in Veneto e Piemonte, hanno funzionato per un lungo periodo durante l’emergenza. Unico ospedale dedicato è stato quello costituito in Fiera a Milano, per il resto “i Direttori Generali auditi – si legge – hanno raccontato di percorsi dedicati, pronti soccorsi di emergenza, e altre soluzioni che danno l’idea di auto-organizzazioni per singoli territori, in assenza di una direttiva centrale precisa”. Direttiva che ovviamente doveva arrivare proprio dalla Regione.
Ma anche dell’ospedale in Fiera la relazione rivela l’inefficacia: “Le criticità relative alla realizzazione di tale struttura hanno riguardato in particolare il numero di posti letto messi a disposizione al suo interno: a marzo 2020 dovevano essere 600, sono stati successivamente ridotti a 400 e infine a 200. Si è giunti poi al numero reale di 157”. Pochi posti letto in più e niente personale in grado di gestirli: l’ospedale in Fiera “ha comportato come conseguenza la sottrazione di personale ai reparti ospedalieri coinvolti nella gestione della pandemia, che si sono conseguentemente trovati in una situazione di difficoltà”.
La stessa Commissione d’inchiesta, a distanza di 2 anni, ancora non capisce “per quale motivo non si è pensato di provvedere al potenziamento degli ospedali e delle strutture già esistenti, invece di procedere alla realizzazione di un grande ospedale a sé stante”. E quello che viene ancora oggi contestato a Regione Lombardia “è il fatto di aver raccolto un’ingente somma di denaro, pari a 21 milioni e 153 mila euro derivanti da 1560 donatori, per l’adattamento della Fiera Milano City ad ospedale, che nella pratica si è rivelato essere un totale spreco di risorse in quanto strumento poco efficace per gli interessi pubblici tutelati, ossia la salute generale in una situazione di pandemia”.
È mancata anche la prevenzione
Un altro dei temi emersi è la totale assenza di tracciamento durante la prima ondata di Covid. L’allora assessore Gallera e il Governatore Fontana, più volte chiamati a riferire su questo dal Consiglio, si trinceravano dietro al fatto che i tamponi “non erano utili in quanto non erano protettivi rispetto al contagio”. Gallera arrivò a sostenere: “Con questa malattia, con la velocità di diffusione, con l’alto numero di asintomatici che ha, questo tema del tracciamento è un tema che nessun Paese al mondo è stato in grado di gestire, perché non c’è la possibilità di fare contestualmente 10 milioni di test lo stesso giorno”.
“Appare chiaro – commenta la Commissione – che nella Regione più colpita dalla pandemia non si è voluto fare tutto il possibile per ampliare tempestivamente la capacità di effettuare tamponi su scala più ampia. Ciò non vale solo per la carenza di reagenti, per la quale non ci si è attivati sul piano industriale, ma per una precisa scelta strategica della Giunta che si è rivelata fallimentare”. Altrimenti non ci sarebbero stati tutti questi morti.
Non mancano nella relazione riferimenti al fallimentare metodo della privatizzazione della sanità e ai continui tagli di fondi alle strutture pubbliche. Una tendenza riscontrata in tutta Italia, ma che – per stessa ammissione della Commissione – raggiunge il suo apice in Lombardia, “a cominciare dal 1997, con i primi interventi legislativi attuati dal Presidente Formigoni e culminati con l’approvazione della legge regionale n. 22 del 2021 che avrebbe dovuto correggere le storture del sistema”.
Il caso di Alzano
“Quanti sanno che l’ospedale di Alzano si predispose per la zona rossa già il 23 febbraio, bloccando il cambio turno del personale, ma fu ordinato di lasciar perdere?“. A chiederlo, durante la sua audizione nella Commissione regionale d’inchiesta sulla gestione del Covid in Lombardia, è Giuseppe Marzulli, ex direttore sanitario dell’Ospedale di Alzano Lombardo, il comune della bergamasca divenuto tristemente noto, insieme a Nembro, per essere stato uno dei luoghi con il più alto numero di morti da Covid durante la prima ondata. “Perché la zona rossa fu chiesta solo il 3 marzo, quando sarebbe stato indispensabile attuarla immediatamente? Perché fu chiesta solo per Alzano Lombardo e Nembro, quando era chiaro a tutti che alla data del 3 marzo l’epidemia era ormai largamente diffusa nella bergamasca? Furono fatte pressioni sui politici lombardi per sacrificare gli interessi della collettività, ai fini di tutelare presunti interessi economici?”.
È un fiume in piena di domande il dottor Marzulli su quello che è diventato uno dei casi più eclatanti della pandemia e ancora oggetto di discussioni. Ma molte di queste domande, rivolte alla Commissione, appaiono del tutto retoriche e piuttosto delle vere e propria accuse all’indirizzo della Regione Lombardia. “Sebbene a quella data (il 20 febbraio, quando ci fu il primo caso di Covid in Lobardia, ndr) l’epidemia fosse già diffusa sul territorio, era ancora possibile limitare i danni, agendo secondo scienza e coscienza, ma incredibilmente sia le forze politiche che i mezzi di informazione fecero a gara per cercare di minimizzare la situazione, a difesa presumibilmente di interessi economici e produttivi, non comprendendo che proprio la mancata adozione di provvedimenti sanitari tempestivi e corretti avrebbe poi finito con il pregiudicare gli interessi economici e produttivi che si volevano tutelare”. “Furono adottati – si domanda ancora Marzulli – da Regione Lombardia, in quei giorni, tutti i provvedimenti idonei per contenere l’epidemia? Ci sono fondati motivi per ritenere di no. È possibile fare riferimento, oltre a quanto emerge con chiarezza dall’analisi documentale, anche a quella che è stata la mia esperienza personale”.
La Commissione d’inchiesta ha provato a chiamare l’ex assessore al welfare di Regione Lombardia, Giulio Gallera, che però scarica tutta la responsabilità sul Direttore generale della struttura. “…su Alzano la scelta di tenere aperto è stata fatta dal direttore generale, – ha spiegato Gallera – che è quello che aveva la percezione di come erano le cose e di come era in grado di garantire la sicurezza. Non c’è stata in alcun modo una indicazione regionale in contrapposizione a una scelta del direttore, chiaro? Tant’è che a Codogno il direttore non si è neanche consultato con noi”. Lo stesso fa il Governatore Attilio Fontana che, sollecitato sul tema, risponde: “Su questa cosa posso soltanto dire che questo fatto mi fu rappresentato nel momento in cui era già avvenuto, non mi ricordo sinceramente se due o tre giorni dopo venni a conoscenza di questa circostanza”.
Purtroppo, però, anche la Commissione ha dovuto fermare la sua attività d’inchiesta perché non ha mai ricevuto dalla Giunta la copia di alcune comuncazioni. E quello che si legge nella relazione non ha nulla a che vedere con una democrazia rappresentativa: “Nonostante le richieste reiterate, alcuni documenti non saranno mai messi a disposizione della Commissione e l’audizione del Presidente Attilio Fontana pone una pietra tombale sulla speranza dei commissari di entrare in possesso di quella documentazione strategica”.