Che il sogno della donna sola al comando – seppur chiamata con l’articolo al maschile – fosse un’ossessione di Giorgia Meloni era facilmente intuibile fin dal suo primo discorso in Parlamento, subito dopo la sua nomina a presidente del Consiglio. Perfino prima, nel bel mezzo delle trattative, quel suo “non sono ricattabile a differenza di altri” lanciato contro Silvio Berlusconi lasciava intendere che la leader di Fratelli d’Italia vedesse anche nei suoi alleati dei possibili nemici.
Dai migranti al Pnrr la premier Meloni ha commissariato l’esecutivo. E svilito il ruolo delle Camere
Nel libro di Bruno Vespa uscito in questi giorni la premier rincara la dose: “Margaret Thatcher – dice Meloni – si faceva portare soltanto i giornali che parlavano bene di lei. Io nemmeno quelli. Non leggo niente per non essere condizionata. Non ho padroni, non ho niente da restituire. Mi fido solo della mia coscienza e mi interessa solo il giudizio degli italiani”, riferendosi chiaramente ai suoi compagni di governo. Poi aggiunge di essere “schietta nel trasferire” le sue convinzioni: “Non abbasso la testa. Non ho complessi d’inferiorità”, risponde la presidente del Consiglio, incapace di abbandonare il vittimismo sfidante che in campagna elettorale le ha portato così tanta fortuna.
Per questo non stupisce che la promessa della campagna elettorale di “far eleggere il Presidente della Repubblica” si sia modellata nel corso di quest’anno di governo nella voglia di un premierato che aumenti i poteri del presidente del Consiglio. La riforma costituzionale per Meloni è un passo “verso la governabilità” perché riflette perfettamente la sua idea di governo: un esecutivo che scippa l’azione legislativa al Parlamento svilito in un votificio affermativo delle intenzioni e un presidente della Repubblica da estrarre dalla naftalina in occasione delle cerimonie. Per questo da Palazzo Chigi è iniziata la conta per valutare le possibilità di ottenere una maggioranza abbastanza ampia da evitare il referendum confermativo su cui si è già schiantato Matteo Renzi.
L’iter della riforma costituzionale per introdurre il premierato deve ancora partire. Ma la svolta autoritaria di Meloni dura da un anno
Ma il premierato di Giorgia Meloni nei fatti è già qui, ora. Anche in occasione del Memorandum d’intesa firmato con l’Albania Meloni non ha abbandonato la sua abitudine di informare i suoi ministri praticamente a giochi fatti. Ieri il ministro agli Esteri Antonio Tajani ha chiesto, piuttosto risentito, di poter vedere una bozza dell’accordo con il presidente albanese Edi Rama mentre dal Viminale il ministro all’Interno Matteo Piantedosi non ha potuto fare altro che prendere atto di un ulteriore commissariamento di Palazzo Chigi sul tema dell’immigrazione.
Nessuna voce in capitolo ha invece il leader della Lega Matteo Salvini che pur essendo ministro e vice presidente del Consiglio non può fare altro che mandare avanti i suoi a logorare la premier. Non è un caso che il suo vice Andrea Crippa parli di “un buon accordo” con Tirana ma puntualizzi che “non basta”: “Bisogna utilizzare il metodo Salvini”, dice il vice segretario federale della Lega. Il premierato di fatto di Giorgia Meloni è plasticamente riscontrabile anche nella bozza della legge di bilancio da cui sono scomparsi i punti fondamentali di Matteo Salvini (la riforma Fornero che la Lega avrebbe voluto abolire ne esce praticamente rinforzata) e le priorità di Forza Italia, tanto che Antonio Tajani aveva reagito stizzito leggendo la bozza.
Che la presidente del Consiglio abbia deciso che la prossima Manovra finanziaria non sia emendabile in Parlamento (invertendo perfino il Senato con la Camera per evitare polemiche) è perfettamente in linea con l’abuso di decreti legge che in questo anno hanno sostituito di fatto l’iniziativa parlamentare sui temi più scottanti. Insomma, il premierato è già qua, manca solo la legittimazione.