Milano è la frontiera che decide il risultato del Pd alle comunali. Perché, in caso di sconfitta, la minoranza dem sarebbe pronta a chiedere le dimissioni da segretario di Matteo Renzi. E addirittura viene ipotizzata la richiesta per la “libertà di scelta” al referendum sulle riforme istituzionali. Ma su questo punto c’è ancora un confronto in atto tra le diverse anime nella sinistra. Resta, però, un dato: con il ko per Palazzo Marino a sinistra si romperebbero gli indugi. Mettendo sul tavolo l’ipotesi di dimissioni e l’avvio di una gestione “veramente collegiale” del partito fino al congresso. Lasciando Renzi a Palazzo Chigi per non destabilizzare il quadro politico. Sarebbe comunque un attacco duro, tale da portare al muro contro muro con il presidente del Consiglio. Che ovviamente non sarà affatto disposto ad abbandonare il ruolo di segretario a pochi mesi dal suo grande pallino: il referendum di ottobre sulle riforme.
OLTRE MILANO
D’altra parte con il successo di Giuseppe Sala lo scenario sarebbe diverso: la sinistra guidata da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza attenderebbe la proposta sulla formazione della nuova segreteria da parte di Renzi, evitando assalti. Per capire se davvero il leader del partito vuole usare il “lanciafiamme”, come ha affermato subito dopo i risultati del primo turno, o se, passata l’ira, preferisce trattare con gli avversari interni per allentare le tensioni. L’eventuale vittoria di Mr. Expo all’ombra della Madonnina renderebbe meno pesante anche l’ipotetica sconfitta di Piero Fassino a Torino (di Roma nemmeno si parla più tra i dirigenti dem). “L’operazione-Sala porta la firma di Renzi. È lui che non ha voluto la continuità con un candidato di sinistra-sinistra come Pisapia”, ragiona un esponente della minoranza del Pd. “Non sarebbe un affronto personale – aggiunge– ma una valutazione politica per cui è inevitabile chiedere il conto al segretario. Milano aveva una situazione di partenza diversa rispetto a Napoli e Roma dove i guai locali rappresentano una giustificazione per la sconfitta. Mentre su Torino potrebbe prevalere lo schema-Parma”. Con Sala sindaco di Milano, quindi, Renzi avrebbe una grana in meno. Ma giusto per qualche ora. Il 24 giugno, infatti, la minoranza si riunirà per l’analisi del voto e la pianificazione della strategia. E prima di quel giorno i renziani, con il vicesegretario Lorenzo Guerini come ambasciatore, dovranno annunciare la selta: concedere posti in segreteria oppure proseguire con lo scontro.
BOLLA D’ALEMA
In questo clima, il grande complotto dalemaniano si sta rivelando una gigantesca bolla di sapone. Dopo ore di cruento scontro verbale tra fazioni del Partito democratico, il senatore renziano, Stefano Esposito, ha ammesso: “Non penso che abbia operato sotto traccia per favorire la candidata grillina (Virginia Raggi, ndr)”. Ma non solo. “Tutto questo caos per far passare l’idea che alla fine la colpa è di Massimo D’Alema?”, si chiede un parlamentare vicino all’area di Bersani. Tra gli oppositori interni al segretario circola un ragionamento abbastanza consolidato: D’Alema non ha più le “sue truppe” nel partito. Perché ha perso la presa. Conserva certamente un peso mediatico – tanto che addirittura i suoi silenzi spesso sono motivo di spunto – ma tra deputati e senatori nessuno riesce a dirsi ancora dalemiano tout court. La battaglia per la guida del Pd ha provocato un parziale riavvicinamento con Bersani. “Ma fa ridere il pensiero secondo cui Pier Luigi possa essere il mero esecutore del volere di D’Alema”, osserva in privato un esponente della minoranza. E infatti la proposta politica si muoverà autonomamente rispetto al pensiero del Lìder Maximo.