Grande protagonista e innovatore in radio e in tv, Carlo Massarini è un conduttore, giornalista e autore di numerose pubblicazioni sempre in cerca di nuove tendenze nella musica, nell’arte, nello spettacolo.
Ai tempi di “Per voi giovani” che tipo di autonomia avevate in Rai nella scelta della musica da trasmettere e degli argomenti da trattare?
“Avevamo un’autonomia totale, soprattutto sui generi, e ognuno si sceglieva il proprio. C’era, però, la commissione d’ascolto che voleva avere i testi delle canzoni in modo da giudicare se fossero compatibili o no con la morale del tempo, immagino. Il problema loro era che non parlavano inglese, quindi si fidavano delle traduzioni che, per quanto riguarda i temi condannati e cioè sesso, droga e politica, erano parzialmente accomodate. C’erano alcuni pezzi che non si potevano trasmettere e questo, naturalmente, dava un po’ la cifra dell’ambiente in cui lavoravamo. Però, per quanto riguardava la scelta della musica e dei pezzi politici tante cose passavano, erano un po’ più attenti sull’argomento droga. Ma lo abbiamo fatto e non ci siamo mai lamentati.”
Come è nata l’idea di “Mister Fantasy”? Poteva sembrare un azzardo puntare sulla diffusione dei video musicali in quel momento e su artisti spesso emergenti o di nicchia. Hai avuto difficoltà a imporlo all’inizio? Qual è il segreto che lo ha reso nel tempo una delle trasmissioni storiche musicali?
“Mister Fantasy è nato in un momento molto particolare, uscivamo da un periodo buio, quello degli anni ’70, si andava verso un periodo colorato, esagerato, godurioso e quindi c’era voglia di fare cose nuove. Paolo Giaccio ha avuto questa intuizione geniale di costruire un programma su dei video musicali che sarebbero arrivati subito dopo in modalità copiosa. Noi trasmettevamo roba di nicchia, non quella famosa. Trasmettevamo i video migliori che ci arrivavano. Spesso e volentieri grandi artisti, per esempio Springsteen, i video non li facevano proprio, quindi noi andavamo in cerca di materiale visuale che potesse soprattutto far capire al pubblico, e anche agli artisti oltre che ai produttori e ai registi, cosa si potesse fare con questo nuovo mezzo. Quindi cercavamo delle cose che fossero belle, indipendentemente dal fatto che fossero di nicchia o famose. Non abbiamo avuto nessuna difficoltà a imporlo, nel senso che la Rai ce l’ha fatto fare con Brando Giordani, grande dirigente di Raiuno. Ci siamo messi a fare quello che sapevamo fare che era comunicare la musica. Credo che sapessimo farlo abbastanza bene, il segreto era la totale novità della musica, del presentatore, del format, dei video stessi. Penso che sia rimasto un unicum, non solo in Italia ma nel mondo, perché ritengo che non ci sia stato mai un programma neanche vagamente simile a “Mister Fantasy”, un’unicità di cui oggettivamente andiamo molto orgogliosi”.
Cosa ne pensi del modo di fare giornalismo musicale adesso in rapporto anche al passato? Ritieni ci sia ancora spazio per delle riviste a pagamento in edicola?
“È tutto molto diverso rispetto al passato soprattutto perché con la presenza del web e quindi dei siti degli artisti, dei social in generale, è chiaro che si sia molto ristretta la quota di esclusiva che si possa avere. Però, al contempo, si è molto molto ampliata la quota di informazione e questo, naturalmente, è un bene per chiunque ami la musica, soprattutto quella un po’ diversa dal mainstream. Per esempio su Spotify trovo musica di tutto il mondo, cosa che una volta, 20 anni fa era assolutamente impossibile. Pertanto fare il giornalista musicale adesso vuol dire avere un’originalità che ti permetta di staccarti un po’ dalla media finché non arriverà l’intelligenza artificiale che ci seppellirà tutti… Ho sempre pensato che il mestiere del giornalista musicale – io avevo come modello “Rolling Stone” – fosse saper scrivere bene come prima cosa. Scrivere bene vuol dire non scrivere in maniera banale, non scrivere dei comunicati stampa, ma raccontare la musica. Il grande valore della musica è quello di essere raccontata, cosa che non capiscono in televisione. Devi saper scrivere bene e costruire qualcosa che sia appassionante da leggere, non semplice routine. Questo è ciò che credo che faccia la differenza fra un buon giornalista e uno medio, come anche fra un buon musicista e uno medio, cioè quelli più bravi sono coloro che riescono ad andare un po’ più in là o per tecnica o per fantasia o per mestiere, insomma quelli che riescono a darti qualcosa in più”.
Il tour con i Beatbox e l’esperienza sul palco raccontando i Beatles che tipo di esperienza è stata? Contate di rifarla?
“Con i Beatbox mi sono molto divertito perché puoi ascoltare la musica dei Beatles tutte le sere, anche per un mese di fila, e non ti annoia mai, è veramente una musica bellissima, la musica che ha aperto la strada a tutto quello che è venuto dopo, quindi praticamente a tutto. Un’esperienza piacevolissima, i ragazzi sono molto simpatici e veramente in gamba, il pubblico ci accoglie sempre con tanto affetto anche perché chi viene lì viene specificatamente per vedere i Beatles e, dato che i pezzi sono suonati esattamente come gli originali, non si può rimanere scontenti. Il suono, gli abiti, gli strumenti, le voci, tutto è esattamente uguale, è una capsula del tempo che riporta indietro ed è questa la bellezza, la magia”.
Cosa ne pensi delle sperimentazioni fatte dalle radio con l’intelligenza artificiale? Le vedi come un pericolo o un’opportunità?
“Non mi sono ancora fatto un’idea precisa sull’intelligenza artificiale, non ho avuto il tempo, considerato che sto scrivendo il mio secondo foto-libro gigantesco e non ho potuto dedicarmi a nient’altro. Credo che sia allo stesso tempo un pericolo e un’opportunità, come tutte le cose del mondo. Potrebbe darci una grande mano a vivere meglio, ma ci saranno sicuramente anche danni di vario tipo. Come e più che ai tempi di Internet bisogna avere un’idea chiara dei rischi oltre che delle possibilità. Siamo ancora in una prima fase, dobbiamo capire come usarla al meglio e, come al solito, succederà di tutto”.