Per la cooperazione con l’Africa nell’ambito del Piano Mattei, che interesserà aree di intervento quali “l’istruzione e la formazione, la Sanità, l’acqua e l’igiene, l’agricoltura, l’energia e le infrastrutture, sono nove le nazioni che abbiamo individuato: Algeria, Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Mozambico e Tunisia”. Lo ha spiegato ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni intervenendo alla cabina di regia sul Piano Mattei convocata in tarda mattinata a Palazzo Chigi.
Il doppio gioco di Meloni
La premier continua la sua cavalcata tutta retorica sullo schiacciare internazionale. L’impresa politica di trasformarsi in due anni da colei che ammirava il fascismo a quella che riesce a fingere statura internazionale prosegue a gonfie vele. Nemmeno scalfita dalle morti nel Mediterraneo di qualche ora prima Meloni è pronta a volare in Egitto domani per stringere nuovi accordi con il presidente egiziano Al sisi chiedendo sempre la stessa cosa: frenare le partenze con tutti i metodi possibili fregandosene dei diritti umani che sarebbero da rispettare e delle vite umane che andrebbero preservate.
Al suo fianco la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che pur di mantenere lo scettro è pronta a rimangiarsi il suo precedente programma elettorale spostandosi ogni giorno più a destra per plasmarsi agli equilibri del nuovo Parlamento Ue. Con l’Egitto l’accordo sarà di 7,4 miliardi di euro per sostenere le finanze pubbliche e frenare la migrazione (anche se il ministro delle finanze egiziano ha abbassato la cifra – tra 4,6 e 5,5 miliardi di euro).
La giustizia per Regeni e la manutenzione della malridotta democrazia sotto le piramidi possono aspettare. A giugno, gli europei andranno alle urne e il risultato probabilmente si tradurrà in un blocco di destra ampliato in Parlamento. La prima ministra italiana è pronta a diventare la leader spirituale di quel blocco, spingendo Bruxelles a destra su tutto, dalla politica migratoria al Green Deal, l’ambizioso pacchetto di leggi sbriciolato dai nuovi venti che spirano verso Bruxelles.
Poi ci saranno le elezioni in Usa, dove Meloni ha scelto da tempo il suo candidato ideale, Donald Trump. Da Palazzo Chigi la relazione con Trump viene definita “molto positiva”. Di sicuro il governo italiano si ritroverebbe ad essere uno dei più vicini in Europa alle bizze dell’eventuale presidenza trumpiana. Il trucco sarebbe sempre lo stesso, come già accade con Orbàn: appoggiarne gli estremismi in casa per accarezzare i propri elettori e poi fingersi mediatrice sul palcoscenico internazionale per accontentare gli equilibri che Meloni vorrebbe combattere. Un’illusione ottica in cui la presidente del Consiglio appare abile mediatrice mentre mette in atto una politica bifronte che si adatta al contesto.
Il bivio
Ma se Trump diventerà presidente per Meloni si aprirà un bivio difficilmente scavalcabile. Come farà la presidente del Consiglio a rimanere fedele alla linea pro Nato e pro Ucraina mentre Trump rovescerà la situazione? Per ora da un lato sta facendo molto per garantire che le sue credenziali pro-Ucraina e pro-Nato siano in buon ordine, incluso il viaggio a Kiev nel secondo anniversario dell’invasione della Russia a febbraio e l’hosting di un incontro speciale dei paesi del G7 incentrato sull’Ucraina nello stesso mese. D’altra parte sta facendo del suo meglio per corteggiare i repubblicani Maga anti-Ucraina costruendo legami con il campo di Trump grazie ai membri del suo partito, Fratelli d’Italia. Ma se accade davvero quello che spera, che farà poi Meloni?