C’è un momento, ogni anno, in cui la Repubblica Italiana torna a fare i conti con sé stessa. È il 25 aprile, Festa della Liberazione, la data che segna la fine del nazifascismo, la vittoria della Resistenza, l’inizio di una democrazia costruita sui valori dell’antifascismo. Una storia che per alcuni resta indigesta. Per Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Ignazio La Russa, il 25 aprile è una ricorrenza che brucia le mani, un terreno minato dove ogni parola pesa, ogni gesto è sotto osservazione, ogni assenza è un silenzio che urla. Anche quest’anno hanno dimostrato quanto sia difficile per la destra italiana convivere con la memoria della Liberazione.
Meloni: presente, ma altrove
Giorgia Meloni c’è. Almeno fisicamente. Dall’ottobre 2022, da quando è diventata Presidente del Consiglio, ha partecipato regolarmente alla cerimonia ufficiale all’Altare della Patria, accanto a Sergio Mattarella. Nel 2023, nel 2024 e, anche quest’anno, Meloni rispetterà il protocollo. Ma la presenza, da sola, non basta a raccontare il rapporto complicato della premier con il 25 aprile. Ogni anno emergono indiscrezioni su viaggi istituzionali programmati in concomitanza con la ricorrenza. Per qualcuno, una coincidenza, per altri, una fuga evitata all’ultimo.
La lingua di Meloni resta il vero barometro della sua distanza dalla Liberazione. Mai una parola chiara, mai un termine netto. Preferisce rifugiarsi nella condanna generica di “tutti i regimi totalitari”, fascismo incluso. Una retorica che equipara il fascismo a ogni altra dittatura, con l’effetto – voluto o meno – di diluire il significato storico della Resistenza. Nel 2024 ha parlato di “avversione a tutti i totalitarismi e autoritarismi”, evitando ancora una volta di pronunciare quella parola scomoda: antifascismo. Così come ha preferito trasformare il 25 aprile nella “festa della libertà”, invocando una “concordia nazionale” che ha poco a che fare con la storia e molto con la necessità politica di non spaventare l’elettorato più nostalgico della sua parte.
Il 2025 ha offerto anche un altro espediente: la morte di Papa Francesco, che ha permesso al governo di consigliare celebrazioni “sobrie”. Il rispetto del lutto ha avuto una funzione collaterale: smorzare il carattere assertivo del 25 aprile. Una scelta che rientra perfettamente nella narrazione di Meloni, che preferisce ridurre la Liberazione a una commemorazione come tante altre, svuotata del suo portato politico.
Nonostante le dichiarazioni di incompatibilità tra Fratelli d’Italia e le nostalgie fasciste, Meloni continua a mantenere una distanza strategica dall’antifascismo come valore fondante. Nel 2023 ha scritto che il “fascismo” viene usato “come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico”. Una difesa preventiva, che conferma quanto quel passato continui a essere una ferita aperta.
Salvini: assente per scelta
Matteo Salvini ha scelto un’altra strada: quella dell’assenza deliberata. Non ha mai cercato di camuffarla, non ha mai provato a mascherare il suo fastidio per il 25 aprile. Da ministro, da leader politico, Salvini non partecipa alle celebrazioni ufficiali. Anzi, rivendica le sue scelte alternative: nel 2019 era a Corleone, per una manifestazione antimafia, sostenendo che la mafia è la vera minaccia contemporanea, non il fascismo o il comunismo, ormai sepolti nel passato. Nel 2024, invece, ha scelto di presentare il suo libro “Controvento” proprio a Milano, la città Medaglia d’Oro della Resistenza. Un gesto interpretato come una sfida, l’ennesima provocazione.
Quando partecipa, lo fa a modo suo: nel 2024 ha deposto una corona in una cerimonia locale a Milano, lontano dai cortei, dalle bandiere, dai “fazzoletti rossi” che rifiuta apertamente. Per lui, il 25 aprile è una festa “divisiva”, trasformata dalla sinistra in una celebrazione “triste, violenta e retorica”. La narrazione di Salvini è chiara: la Liberazione non appartiene solo alla sinistra, e chi tenta di rivendicarla lo fa per escludere gli altri.
Anche Salvini, come Meloni, preferisce parlare di libertà in astratto. Ha usato la ricorrenza per legare la libertà alla sua agenda politica, dalla lotta contro le restrizioni pandemiche all’opposizione alle politiche dell’Unione europea. Il fascismo? Un argomento secondario. Alla domanda sull’antifascismo del governo Meloni ha risposto con frasi vaghe: “Questo è un governo scelto dai cittadini. Poi, l’antifascismo sì… chi ha nostalgia del fascismo? No, spero di no…”. Mai una posizione netta.
La Russa: senza filtri
Ignazio La Russa non si nasconde. Partecipa alle cerimonie ufficiali, ma non rinuncia alla sua narrazione. Nel 2023, dopo aver deposto la corona all’Altare della Patria, è volato a Praga per onorare Jan Palach, martire dell’anticomunismo, e visitare Terezin, il campo di concentramento nazista. Un atto simbolico, una dichiarazione di intenti: bilanciare l’antifascismo con l’anticomunismo.
Nel 2023 ha affermato che la parola “antifascismo” non è presente nella Costituzione. Una verità semantica, certo, ma priva di senso storico: la Costituzione italiana nasce dalla Resistenza, e il suo spirito antifascista è inciso in ogni articolo, anche se quella parola non compare. Ma a La Russa interessa altro: sganciare la Carta dai suoi fondamenti storici, rileggerla come semplice espressione di libertà e patriottismo.
Sempre nel 2023 ha descritto i soldati nazisti uccisi dai partigiani nell’attentato di Via Rasella come “una banda musicale di semi pensionati”. Un falso storico smontato da ogni fonte attendibile, ma sufficiente a ridimensionare la Resistenza e alimentare il dubbio. Anche quando ha tentato di correggere il tiro, il danno era fatto.
La Russa, figlio del Movimento Sociale Italiano, già collezionista di cimeli fascisti, continua a incarnare l’anima più ideologica della destra italiana. La sua presenza alle cerimonie ufficiali è un atto dovuto, ma ogni dichiarazione, ogni gesto, è un tentativo di riscrivere la storia.
La destra e la memoria
Tre leader, tre strategie. Meloni istituzionale ma ambigua, Salvini assente e provocatore, La Russa revisionista. Insieme, costruiscono una destra che non ha ancora fatto pace con il proprio passato. Il 25 aprile resta per loro una data scomoda, da disinnescare, ridimensionare, eludere. Ogni anno, la memoria della Liberazione torna a metterli di fronte al proprio riflesso. E ogni anno, quel riflesso li costringe a scappare.