di Nicoletta Appignani
Pasticcio marò, la farsa continua: ora che li abbiamo riconsegnati all’India al termine di un incredibile psicodramma politico-istituzionale, gli indiani non sanno bene che farsene.
Proprio così, forse solo oggi si capirà qualcosa del futuro di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma intanto le notizie che arrivano da New Dehli sono decisamente poco confortanti.
Per questa mattina infatti è stata fissata l’udienza presso la Corte Suprema nella quale il Procuratore della Repubblica, Goolam Essaji Vahanvati, dovrà illustrare il progetto governativo riguardante l’inchiesta e la costituzione di un tribunale speciale per i due fucilieri di marina.
Nessuna indagine
Il dato curioso però è che la polizia criminale indiana, come riferisce da giorni la stampa locale, a cominciare dal prestigioso Times of India, non ha ricevuto alcun mandato a indagare sulla vicenda che vede protagonisti Latorre e Girone.
Nei giorni scorsi autorevoli fonti della stessa Cbi e del ministero dell’Interno avevano indicato alla tv Cnn-Ibn che l’inchiesta, in un primo tempo assegnata alla polizia antiterrorismo – la cosiddetta Nia – sarebbe stata trasferita alla polizia criminale per evitare strettoie legate alle assicurazioni date all’Italia di non applicabilità della pena di morte.
Qualche giorno fa era stato il primo ministro Mario Monti a parlare con l’omologo indiano Singh, ricevendo conferma: nessun rischio di pena di morte per i due militari italiani. “Altri percorsi avrebbero recato un grave danno alla credibilità complessiva dell’Italia”, aveva spiegato Monti.
La querelle, va ricordato, nasce all’indomani del mancato ritorno dei marò in India, che aveva accordato il permesso ai due di tornare in patria per le elezioni. In quel contesto, era stato il Ministero degli Esteri a spiegare che a quel punto Latorre e Girone sarebbero rimasti in Italia sulla base di una lunga serie di questioni giuridiche fra le quali proprio il rischio di incorrere nella pena di morte.
Ennesimo dietrofront
Una decisione che, mentre da un lato aveva scatenato una durissima reazione indiana, evidentemente non era stata accolta de plano proprio all’interno del nostro governo.
Così, mentre in un incontro informale con i giornalisti in procura militare una fonte governativa spiegava le ragioni della mancata restituzione all’India, in altre stanze qualcuno decideva esattamente il contrario: i due soldati sarebbero rientrati a New Dehli rispettando così gli affidavit forniti dal nostro paese e sui quali, del resto, si era impegnato lo stesso Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Una pessima figura che ha provocato non solo un danno all’immagine dell’Italia all’estero, ma anche una rottura in seno al governo, con le dimissioni del ministro degli esteri Giulio Terzi. Dimissioni a sorpresa, non avendo questi informato il premier Monti.
La pena di morte
Ora l’assegnazione del caso all’una o all’altra polizia indiana – la Nia o la Cbi – non è una questione meramente tecnica, considerando che una non si occupa di reati che prevedono la pena di morte, mentre l’altra sì.
In tutto questo, ecco spuntare un ulteriore dato, come riportato dalla stampa indiana.
L’Italia, infatti, figura fra i paesi con i quali New Dehli ha stipulato degli accordi di estradizione ben precisi che prevedono lo scambio reciproco di “prigionieri”, in modo che i cittadini dei due stati possano scontare la pena in patria. Un caso che pare applicarsi a pennello a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ma che il governo indiano – evidentemente pressato dall’opposizione e dall’opinione pubblica – fatica ad applicare sotto la luce dei riflettori.
Di qui l’esigenza di prendere tempo, di qui il fatto che a tutt’oggi ancora non si sa che fine debbano fare da un punto di vista processuale i due marines italiani, come li chiama la stampa indiana.
Già, il processo. Da ricordare che anche qui da noi ben due inchieste sono state aperte, una dalla magistratura ordinaria, l’altra da quella militare.
Un disastro insomma. Nel quale l’immagine dell’Italia ne esce praticamente a pezzi.