I pronto soccorso del Lazio esplodono. Una situazione sempre più complicata, soprattutto dopo l’incendio che ha costretto alla chiusura l’ospedale di Tivoli. Ma l’emergenza non si può definire tale, durando ormai da tempo e i dati degli ultimi due anni lo dimostrano: sono state 3 milioni e 300mila le persone che hanno fatto accesso ai pronto soccorso degli ospedali del Lazio. E una delle questioni che la Regione Lazio vuole affrontare al più presto è il fatto che quasi un accesso su quattro non era necessario.
Quasi il 40% degli accessi registrati nei Pronto soccorso del Lazio registrati non sono urgenti e andrebbero trattati dai medici di famiglia
Parliamo di quei pazienti arrivati in codice verde, per i quali si suggeriscono altri percorsi. In totale, su quasi 3,3 milioni di accessi in due anni il 5% è stato in codice rosso, quasi il 17% in codice arancione, ben il 38% in codice azzurro e poco più in codice verde (1,25 milioni). A cui aggiungere anche poco meno di 100mila (sotto il 3%) di codici bianchi. Nel 2023 l’aumento degli accessi al pronto soccorso rispetto all’anno prima è stato del 6% e ora il presidente della Regione, Francesco Rocca, vorrebbe ridurre il numero di pazienti che si reca in ospedale. Il problema è che finora la Regione a guida Rocca ha fatto l’esatto opposto, non puntando realmente sulla medicina territoriale e dando più risorse ai privati invece che alle strutture sanitarie locali.
Antonio Magi (nella foto), presidente dell’Ordine dei medici di Roma e provincia, spiega a La Notizia come si tratti di “una vecchia storia”. Gli accessi impropri al pronto soccorso, sottolinea, derivano da una “carenza della sanità territoriale, sono stati depauperati gli specialisti del territorio”. Non è solo una questione di medicina generale, ma anche specialistica: “Non sono possibili visite specialistiche in tempi normali, non biblici, e così l’unico accesso possibile è attraverso il pronto soccorso”. La mancanza di presa in carico della medicina specialistica fa sì che i pazienti si trovano costretti ad andare nei pronto soccorso per avere una risposta, soprattutto per i malati cronici, a cui servirebbero delle equipe, “dei gruppi di medici che li prendono in carico”.
Ineludibile è anche il tema degli investimenti della Regione. Rocca ha puntato tutto sui privati per abbattere le liste d’attesa e ridurre la pressione sui pronto soccorso. Proprio di recente la Cgil lo ha accusato di aver regalato 24 milioni alla sanità privata convenzionata invece di assumere il personale per le strutture pubbliche e potenziare la medicina di base e la rete territoriale. Anche Magi sottolinea come Rocca avrebbe dovuto puntare di più sulle assunzioni, potenziando soprattutto la specialistica. Parliamo di operatori sanitari che hanno “una media oraria di 21 ore settimanali, bastava portarli a 38 ore e il servizio sarebbe quasi raddoppiato”. Secondo il presidente dell’Omceo Roma, Rocca avrebbe dovuto puntare sul pubblico “aumentando le ore di specialistica e mettendo a terra delle equipe mediche nelle strutture” regionali.
Senza dubbio, la politica dovrebbe “investire di più sul personale, anche facendo qualcosa di nuovo per rendere la professione attrattiva per i giovani e non farli andare via”. Un fenomeno che va affrontato con urgenza è proprio quello del personale, con tantissimi medici che vanno all’estero sia per una questione retributiva che per le condizioni di lavoro spesso proibitive: “Soltanto a gennaio – racconta Magi – ho firmato a Roma 103 permessi per andare a lavorare all’estero, parliamo di giovani medici che dobbiamo mantenere qui. Non è vero che non ci sono”. E bisognerebbe trattenerli perché un altro grave problema è quello dell’invecchiamento del personale sanitario in seguito al blocco del turn over: “Entro un anno e mezzo su 45mila medici circa 20mila andranno in pensione”.
Sanità territoriale in abbandono. E i pazienti non sanno a chi rivolgersi
Un altro dei problemi riguarda la carenza della medicina territoriale. E in questo il Lazio di certo non brilla: basti pensare ai fondi del Pnrr per le case di comunità, strutture che nascono proprio per alleggerire i pronto soccorso e prendere in carico i malati cronici o dimessi dagli ospedali che avrebbero bisogno di essere seguiti da una equipe specialistica. Come rivelato dalla Fondazione Gimbe, ci sono in teoria 135 edifici da ristrutturare ma è tutto fermo. Così come sugli ospedali di comunità: ne è stato realizzato solo uno su 36 al momento e servono proprio come strutture intermedie tra il domicilio e il ricovero ospedaliero. Potrebbero, quindi, alleggerire il pubblico.
Le case di comunità, spiega Magi, servirebbero anche “per i pazienti dimessi dagli ospedali, che troverebbero un’equipe specialistica” pronta a seguirli. Su questo punto, comunque, si “sta finalmente partendo” ed è fondamentale perché “possono supplire anche ad altre strutture”. Al momento, conclude il presidente Omceo, “si sta lavorando sulle linee guida in Agenas per strutturare queste case di comunità per renderle pronte a brevissimo: se si facesse questo, si riuscirebbero a tagliare le liste d’attesa” e alleggerire la pressione sui pronto soccorso.