Una minchiata al giorno leva il giornalismo di torno. Scusate l’attacco così diretto, ma domani difficilmente si sentirà qualcosa di simile alla grande iniziativa organizzata a Roma dal quotidiano la Repubblica per bombardare Di Maio, Di Battista e i Cinque Stelle, colpevoli di aver posto altrettanto duramente il tema della faziosità del giornalismo in Italia. Ma andiamo per ordine. La minchiata di giornata che dilagava ieri su grandi quotidiani e in rete riguardava il ministro Paolo Savona, sul quale abbiamo letto persino i dettagli delle imminentissime dimissioni. Per una vita euroscettico, il professore si sarebbe incredibilmente trasformato nel tappetino di Bruxelles.
L’economista che più di tutti ha influenzato una scuola di pensiero con la schiena dritta, sostenitore del primato della politica e dei popoli sui mercati, adesso insomma rigirava la frittata cannibalizzando niente di meno che le battute di Cossiga, per convincerci che non c’è alternativa all’austerità imposta dall’Europa. Balle spaziali, di cui questo quotidiano aveva sentito i rumors e aveva messo in guardia, ormai troppo allenati come siamo all’abitudine dei giornali di riprendere e amplificare questo genere di minchiate, quando purtroppo per loro non arrivano prima nell’inventarle. Come da copione, in serata è arrivata la smentita del diretto interessato, che si è dovuto rivolgere a un’agenzia di stampa estera, la Reuters, per essere certo di non vedere stravolte le sue intenzioni.
Il meccanismo della disinformatia è ultra-collaudato. Si riportano le parole della fonte aggiungendovi però in coda la più spericolata esegetica – “dice così, ma in realtà la pensa colì” – con cui i nostri retroscenisti politici ci raccontano da sempre le verità che vogliono loro. Esattamente come è stato per Savona, il giornalismo militante ormai non ha più pudore nell’alzare il tiro, raccontando storie da far invidia ai mostri sacri del genere fantasy, per la serie che Di Maio e Salvini si odiano a tal punto da non telefonarsi più e aver delegato le comunicazioni alle rispettive segretarie. Poi chi guarda i filmati in rete o le foto sui social vede che invece i due si incontrano un giorno sì e l’altro pure, e iniziano a dubitare di quello che sostengono i giornali e i loro incoscienti giornalisti, rimasti all’epoca di Gutemberg, quando la scrittura era certezza e non c’era modo di confutarla, a meno di avventurarsi nel ginepraio mortale di cui nessuno ci ha raccontato meglio di Umberto Eco nel suo “Il nome della rosa”. Così si confonde ad arte il sacrosanto diritto ad informare con l’invereconda vergogna della disinformazione, finendo per aggravare la credibilità e il riconoscimento sociale dei giornalisti, non a caso miseramente precipitata negli ultimi decenni.
I giornali in tutto il mondo stanno affrontando una trasformazione che però non permette più finte battaglie corporative dietro le quali si difendono rendite di posizione politiche o, peggio, economiche di chi è nel recinto (ormai neanche più tanto comodo) dei giornalisti assunti e degli editori. Fare la guerra con obiettivi politici spacciandola per la difesa di un buon giornalismo che nessun potere al mondo ha potuto mai piegare (e ci si è provato sempre, sia chiaro!) è il peggior tradimento possibile per la verità, per i lettori e per la categoria alla quale appartengo anch’io che scrivo, testimone oculare di come i più grandi nemici del giornalisti in Itaia oggi non sono i Cinque Stelle o il Governo che vuole equilibrare il mercato chiudendo la pappatoia dei contributi pubblici.
Quando ieri il ministro Savona ha detto che le sue dimissioni sono il sogno del Corriere della sera sin dal giorno del proprio insediamento, ha rivelato come il più innocente dei bambini – nonostante ben altra età – che il re è nudo, e nel nostro Paese c’è un immenso problema dell’informazione, che ai dignitari e ai ciambellani del Regno non conviene o non hanno il coraggio di ammettere. Di qui gli attacchi a un potere che minaccerebbe i giornali per una fantomatica paura, quando invece di paura dobbiamo averne davvero per la cattiva qualità di quello che viene pubblicato, per il percorso di indottrinamento che devono subire i pochi giornalisti che riescono ad entrare nelle redazioni e per la clava con cui gli editori impuri si fanno da sempre i loro affari.