Mai più un caso Cucchi. Quando un poliziotto o un carabiniere viene indagato per aver commesso dei reati anziché reprimerli mentre aveva la divisa indosso, le strade sono due: o si compiono accertamenti rigorosi, quelli che chi ha ruoli di comando spesso sostiene dimostrino la capacità dei diversi corpi di polizia di fare pulizia delle mele marce, o si cerca di insabbiare la verità. E quando a dirigere l’inchiesta e a portare avanti le verifiche sono magistrati con cui l’indagato lavora o addirittura i suoi colleghi, i vicini di scrivania, il secondo rischio è concreto. Lo evidenziano purtroppo le cronache. In casi eclatanti come quello del pestaggio di Stefano Cucchi a Roma e in altri rimasti sempre lontani dai riflettori. Per evitare tali pericoli e assicurare imparzialità nel fare giustizia, la senatrice pentastellata Angela Piarulli (nella foto) ha presentato un disegno di legge.
IL PUNTO. Prima di sedere sui banchi di Palazzo Madama ed entrare a far parte della Commissione giustizia, la pentastellata Piarulli ha diritto il super carcere di Trani. Un lavoro delicato, in un ambiente difficile, che ha consentito all’onorevole di toccare con mano problemi e drammi della giustizia, portandola poi a impegnarsi in Parlamento su temi che da tempo necessitano di risposte efficaci. Uno di questi è quello sulle inchieste relative agli appartenenti alle forze dell’ordine. La senatrice intende modificare le regole ordinarie che determinano le competenze in procedimenti del genere, per “assicurare maggiore imparzialità laddove emerga una lesione dell’interesse della corretta gestione dei poteri coercitivi e di investigazione”.
In pratica, attualmente il codice di procedura penale consente a un magistrato di indagare su un agente o un ufficiale di polizia giudiziaria che lavora con la stessa Procura in cui lui opera. Nessun problema dunque per un ufficio giudiziario nell’aprire un fascicolo su un appartenente alle forze dell’ordine che collabora con lo stesso ufficio giudiziario, dove ha naturalmente una serie di rapporti e legami. E nessun problema nel delegare le indagini allo stesso corpo di polizia dell’indagato. Con la conseguenza che su un poliziotto o un carabiniere accusato di aver compiuto reati a fare accertamenti sia magari il poliziotto o il carabiniere vicino di scrivania, con cui l’indagato magari pranza e cena insieme. Il pericolo di depistaggi c’è. Le cronache, come appunto nel caso Cucchi, insegnano che non sono mancati.
L’IDEA. Per la senatrice Piarulli a “tale vulnus” si può porre rimedio con una modifica al codice di procedura penale, che per gli appartenenti alle forze dell’ordine indagati faccia scattare lo stesso meccanismo previsto per i magistrati che finiscono sotto inchiesta. A indagare in tal caso non sarebbe più la Procura con cui collabora l’investigatore al centro delle accuse e a portare avanti gli accertamenti non sarebbero più i colleghi di quest’ultimo, ma uffici giudiziari e investigatori con cui l’agente indagato non ha rapporti. E questo anche quando l’indagato svolge un certo incarico con una determinata Procura in un momento successivo a quello dei fatti a lui contestati. L’esponente pentastellata pone però un limite a tale meccanismo, prevedendo di farlo scattare soltanto quando l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria indagati o imputati lo siano “per i reati commessi nell’esercizio” delle loro funzioni. Deciderà il Parlamento.