“Un Paese di santi, poeti, navigatori e… sarti. Fra le tante eccellenze che l’Italia può vantare c’è sicuramente quella della moda, il cui volume d’affari nel 2022 è stato pari a 86,7 miliardi di euro, un trend in continua crescita.
Se durante i decenni del boom degli anni ’70 e ’80 dall’unione di alcuni distretti del tessile – come quello di Como, Prato e Biella – con il genio di alcuni stilisti sono nate case di moda e marchi oggi conosciuti in tutto il mondo, a partire dagli anni 2000 qualcosa si è rotto. Molte case di moda hanno preferito delocalizzare spostando la loro produzione all’estero – in Asia, Turchia, Nord Africa o Est Europa – e mortificando così i talenti e la qualità dell’artigianato tessile locale.
Oggi si contano in Italia 40.000 industrie tessili per un totale di 400.000 lavoratori impiegati
Oggi si contano in Italia 40.000 aziende tessili per un totale di 400.000 lavoratori impiegati (l’Italia rappresenta più di un terzo a livello europeo). Un settore sempre più a rischio anche perché molte grandi firme usano impropriamente il marchio Made in Italy sfruttando le maglie larghe dell’attuale sistema europeo delle etichettature. Serve una maggiore trasparenza e tracciabilità, come già avvenuto con successo per il settore agroalimentare.
Nel marzo 2022 la Commissione europea ha presentato la proposta di regolamento ecodesign che pone nuovi requisiti e standard supplementari per la durabilità, la riparabilità, l’efficienza energetica e il riciclaggio anche dei prodotti del tessile. Questa proposta stabilisce la responsabilità del produttore e quindi valorizzare le produzioni del tessile garantisce anche il raggiungimento dei nuovi obiettivi da raggiungere. Il Parlamento europeo ha votato la sua posizione nella plenaria del mese di Luglio. Una volta approvato definitivamente la Commissione dovrà predisporre sei atti delegati e proporre nuove specifiche. Questa è l’occasione che aspettavamo.
Si sente spesso parlare di Made in Italy, ma solo pochissimi consumatori sanno cosa veramente voglia dire se applicato a un capo di abbigliamento. Attualmente, le uniche informazioni obbligatorie sull’etichetta di un capo o di un accessorio sono i simboli di lavaggio e composizione. Il marchio si riferisce all’origine dell’ultimo passaggio sostanziale – la confezione – e ignora invece gli altri tre passaggi sostanziali che sono la filatura, la tessitura e la nobilitazione, cioè la stampa o la tintura. Se si vuole veramente difendere il tessile e l’abbigliamento italiano bisogna salvaguardare l’integrità di tutta la filiera tessile, comparto con punte di eccellenza nella tutela dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente, della sicurezza e salute dei consumatori.
La nostra proposta – che ci auguriamo raccolga un ampio e trasversale consenso – è quella di prevedere l’obbligatorietà in etichetta di tutti e quattro i passaggi del tessile, sulla falsariga di quanto già avvenuto in Francia con la AGEC law.
L’attribuzione dell’origine per ciascuna delle singole fasi avverrebbe in conformità con la normativa europea già vigente per l’origine semplice del prodotto. Non servirebbe quindi approvare una nuova norma sull’origine e non andrebbe modificato il passaporto digitale del prodotto, che potrà continuare a contenere tutte le altre informazioni ritenute essenziali dal legislatore. Tra l’altro, le informazioni sull’origine dei quattro passaggi sono informazioni che già tutti gli operatori tessili sono obbligati a comunicare, anche per adempiere agli obblighi del codice doganale e quindi con la nostra proposta non aumenterebbero i costi burocratici per le aziende del settore.
Come ha ricordato la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen durante il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione oggi dobbiamo vincere la grande sfida di proteggere il sistema produttivo europeo dall’aggressività e, a volte persino dalla concorrenza sleale, dei nostri competitori. È arrivato il momento di fare sul serio.
L’autrice dell’articolo è un europarlamentare del M5S