Ecco il primo scontro tra i due grandi ego americani. Musk, il visionario delle auto elettriche, dipende dalla Cina per il successo della sua Tesla. Trump, il presidente del “Make America Great Again”, usa la Cina come nemico ideale per consolidare la sua narrativa politica. Tra queste forze opposte, c’è una verità che emerge chiara: finita la propaganda ora la Cina è già terreno di scontro tra i due grandi alleati.
La prigione dorata di Tesla: dipendenza da Pechino
La Tesla di Musk è legata a doppio filo al mercato cinese. La Gigafactory di Shanghai, inaugurata nel 2019, è una delle gemme dell’impero Tesla. Non solo è stata costruita in tempi record – meno di un anno – ma è diventata rapidamente il cuore pulsante della produzione globale dell’azienda. Oggi, più della metà dei veicoli Tesla venduti nel mondo proviene da quella fabbrica. Una percentuale significativa, circa il 40%, è destinata all’esportazione verso mercati in espansione. Il governo cinese, consapevole del ruolo strategico dell’industria dei veicoli elettrici, ha spalancato le porte a Musk, offrendo incentivi fiscali e un trattamento preferenziale raro per un’azienda straniera.
Ma il paradiso produttivo cinese è anche una prigione dorata. Tesla dipende da Pechino più di quanto Musk sia disposto ad ammettere. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, esplose durante la presidenza Trump, hanno messo a dura prova questa relazione. Nel 2018, Trump ha lanciato una guerra commerciale contro la Cina, imponendo dazi su centinaia di miliardi di dollari di merci cinesi. La strategia mirava a ridurre il deficit commerciale americano, ma ha finito per colpire anche le aziende statunitensi che operavano in Cina, Tesla inclusa.
In questo contesto, Musk si è trovato a dover giocare su due tavoli. Da un lato, ha cercato di mantenere buoni rapporti con l’amministrazione Trump, elogiando le sue politiche industriali quando necessario. Dall’altro, ha fatto il possibile per non incrinare la sua posizione in Cina, dove Tesla è vista come un simbolo di innovazione occidentale. Una dicotomia che ha messo in luce il vero volto del capitalismo moderno: nessuna ideologia, solo pragmatismo.
Trump, dal canto suo, ha utilizzato la Cina come un capro espiatorio perfetto per alimentare la sua base elettorale. La narrativa dell’America minacciata dall’espansione economica cinese è stata un pilastro del suo discorso politico alle ultime elezioni. Tuttavia, le sue politiche commerciali raccontano una storia diversa. I dazi imposti hanno avuto effetti limitati sul deficit commerciale e hanno spesso danneggiato le aziende americane più di quanto abbiano colpito la Cina. Trump, pur predicando il nazionalismo economico, ha sempre mantenuto un occhio attento sui numeri. E in quei numeri, il fatturato – sia esso politico o economico – ha sempre avuto la priorità.
Il bivio per Trump e Musk: propaganda o compromesso?
Ora la presidenza Trump – e Musk nella sua veste politica – si trovano di fronte a un bivio: tenere fede alle promesse elettorali sanzionando la Cina (e l’Unione europea) per rendere “grande l’America” oppure rimangiarsi gli slogan e concedere a Tesla di lucrare sulle facilitazioni politiche e salariali cinesi. Trasformarsi in una tecnocrazia del resto era il rischio evidente dell’alleanza Musk-Trump. Il presidente Usa si accorge che farsi strafinanziare da uno stramiliardario ha degli evidenti costi politici.
Ma c’è un elemento di ironia in questa storia. Mentre Trump e Musk combattono le loro battaglie, la Cina si rafforza. La Gigafactory di Shanghai non è solo una fabbrica: è una prova tangibile del potere di attrazione cinese. Pechino non ha bisogno di guerre commerciali o sanzioni per esercitare la sua influenza. Basta la sua capacità di offrire opportunità, rendendo le aziende occidentali dipendenti dal suo mercato. E Trump e Musk sono in quella tela.