“Gli incidenti si stanno accumulando, limitiamoli altrimenti non si sa cosa può succedere. Se si accumulano si finisce fuoristrada e poi è difficile rimettere la macchina in carreggiata. Io sono una ruota della macchina, serve una seria messa a punto”: il segretario del Pd Enrico Letta l’aveva detto chiaro e tondo che la tenuta del governo è in bilico. Solo che tra le sue parole in molti, anche tra i suoi, hanno intravisto un avvertimento – l’ennesimo di una serie di ennesimi – per gli alleati del M5S.
Non ci sono solo le armi a mettere alla prova la tenuta dell’alleanza tra M5S e Pd
Non ci sono solo le armi a mettere alla prova la tenuta dell’alleanza tra Letta e Giuseppe Conte, sono ormai lontani i tempi in cui nel Pd si diceva che l’ex presidente del Consiglio fosse “un punto di riferimento dei progressisti” e l’area tra i democratici e tra i grillini che spinge per una rottura è galvanizzata come non mai.
Al di là della discussione sull’invio di armi all’Ucraina e sulle modalità di partecipazione del Parlamento alla strategia bellica Letta e Conte se le stanno dando di santa ragione a Roma sull’inceneritore che il sindaco dem Gualtieri ha estratto dal cilindro (smentendo le sue stesse promesse elettorali) mentre sui territori per le amministrative il “campo largo” vive un debutto piuttosto deludente.
Anche se formalmente alleati sullo stesso piano il Movimento 5 Stelle non è riuscito ad avere un solo candidato sindaco in uno dei 18 capoluoghi in cui corre con il Pd e in alcuni casi il simbolo del Movimento è stato inglobato in liste più o meno civiche. La Sicilia è una fotografia illuminante: su 120 comuni alle urne il prossimo 12 giugno la lista col simbolo intero del M5S ci sarà in tre comuni: Palermo, Messina, Scordia, in provincia di Catania.
In Calabria su 75 comuni al voto il “campo largo” c’è solo a Catanzaro. Niente alleanze neppure nelle tre città in cui è previsto il ballottaggio: Palmi, Acri e Paola. A Verona, Parma, Belluno e Monza il Movimento 5 Stelle non è riuscito nemmeno a presentare candidati. Ma le differenze pesano anche su importanti riforme nazionali, con il bonus 110% che ha innescato un braccio di ferro tra i due partiti destinato a riacutizzarsi alla prima occasione e ora anche con con il Reddito di cittadinanza che con l’avvicinarsi della stagione lavorativa estiva viene messo sotto accusa da alcuni democratici.
“Inutile continuare a negare che il Reddito di cittadinanza del Governo gialloverde, per come è stato concepito, è stata una follia, come lo è stata quota 100 per le casse dello Stato”, ha tuonato il senatore dem Dario Stefano: “Basta con la difesa di bandierine ideologiche, dannose per l’economia e il Paese”.
L’ex renziano Andrea Marcucci ieri ha rincarato la dose: “Quando sento dire anche da importanti esponenti del mio partito, che l’alleanza con il M5S, è obbligatoria, mi irrito. Non ci può essere nulla di obbligatorio in un’intesa elettorale. Le alleanze si stringono sulla base di un programma condiviso, pochi punti ma su quelli non si transige”.
Nel M5S intanto sono in molti a coltivare il ragionevole dubbio che il Pd sia seriamente intenzionato a proporre un asse “draghiano” per le prossime elezioni (forse addirittura con Draghi in persona) giudicando ovviamente irricevibile la proposta. Non manca nel partito di Conte anche chi vorrebbe staccare la spina al governo immediatamente, facendo inevitabilmente saltare l’alleanza con il Pd.
Letta e Conte per ora interpretano la parte dei pompieri, assicurando che il banco di prova saranno le prossime amministrative ma chiunque sappia un po’ di politica sa che i nodi da sciogliere sono tutti a Roma.