Gli Stati Uniti sembra non vogliano arrendersi. E così, nonostante la visita di pochi giorni fa del segretario di Stato Usa Antony Blinken, ieri anche Joe Biden in persona ha telefonato a Benjamin Netanyahu. Una lunga telefonata con l’obiettivo, da parte della Casa Bianca, di ammorbidire l’atteggiamento di Israele.
Una pretesa vana, però, almeno fino a prova contraria. Ne è un esempio la dichiarazione resa ieri dal capo entrante della Direzione dell’intelligence militare, il maggiore generale Shlomi Binder, il quale ha dichiarato candidamente che Israele deve dedicare i suoi sforzi di intelligence alla restituzione degli ostaggi tenuti da Hamas nella Striscia di Gaza, preparandosi nel contempo a un’escalation nel nord.
“Siamo nel mezzo di una guerra giusta, una guerra dura e lunga, che potrebbe espandersi, e continueremo a impegnarci per raggiungere i suoi obiettivi. Dobbiamo dedicare i nostri sforzi al ritorno di 109 ostaggi nella Striscia di Gaza. È una missione nazionale, etica, di massima importanza e urgente”, ha affermato.
“Dobbiamo continuare ad aumentare la nostra prontezza per la campagna che si sta espandendo nel nord e costruire un buon quadro di intelligence per la difesa e l’attacco, e per le arene più distanti, come questa direzione ha dimostrato di recente”, continua Binder. Binder afferma che, oltre a combattere e prepararsi all’escalation, la Direzione dell’intelligence dovrà anche indagare su se stessa, fare ammenda e migliorare i propri errori. “Dove abbiamo fallito, dovremo indagare e migliorare; dove abbiamo commesso errori, impareremo e cambieremo; dove si sono aperte delle fratture, per quanto grandi siano, insisteremo per ripararle e pentirci”. Parole, dunque, che fanno capire come non ci sia minimamente una tregua nell’orizzonte strategico di Israele.
Tregua a Gaza, gli altri attori in gioco
Vista la situazione, pertanto, ad essere determinante sarà anche la pressione dei Paesi confinanti. Non è un caso che sempre ieri Blinken ha sentito gli intermediari della Giordania per stringere su un eventuale accordo di pace. Ad essere pesantemente scettico è però l’Egitto, il cui peso come noto non è di poco conto. Secondo l’Associated Press le sfide attorno alla cosiddetta ‘proposta ponte’ sembrano minare l’ottimismo per un accordo imminente.
“Gli americani stanno offrendo promesse, non garanzie”, ha affermato un funzionario egiziano. “Hamas non accetterà questo, perché significa virtualmente che Hamas rilascerà gli ostaggi civili in cambio di una pausa di sei settimane di combattimenti senza garanzie per un cessate il fuoco permanente negoziato”. Il funzionario ha inoltre affermato che la proposta non dichiara chiaramente che Israele ritirerà le sue forze da due corridoi strategici a Gaza, il corridoio di Filadelfia e quello di Netzarim: Israele offre di ridurre le sue forze nel corridoio di Filadelfia, con “promesse” di ritirarsi dall’area.
“Questo non è accettabile per noi e ovviamente per Hamas”, ha affermato il funzionario egiziano. Un secondo funzionario egiziano ha affermato che ci sono poche possibilità di una svolta, poiché Israele si rifiuta di impegnarsi in un ritiro completo da Gaza nella seconda fase dell’accordo, e insiste anche nel mantenere le sue forze nel corridoio di Filadelfia e il pieno controllo del corridoio di Netzarim. L’Egitto – ha poi riferito il funzionario – ha detto agli Stati Uniti e a Israele che non riaprirà il valico di Rafah verso Gaza senza il ritiro completo delle forze israeliane dal lato palestinese e dal corridoio di Filadelfia. Insomma, tante parole, pochissimi fatti.