di Vittorio Pezzuto
Ammettiamolo, siamo un Paese davvero sconcertante. Alle ultime elezioni non siamo riusciti a organizzare l’esercizio del diritto di voto di alcune migliaia di ragazzi impegnati nell’Erasmus eppure garantiamo l’elezione di 12 deputati e di 6 senatori a 3,5 milioni di discendenti di emigrati all’estero che magari non hanno mai messo piede in Italia, che poco o nulla sanno della nostra situazione politica e che soprattutto non hanno mai versato una lira o un euro di tasse nelle casse del nostro Stato. Col risultato bizzarro di aver contemporaneamente negato ai primi l’applicazione concreta del principio fondante delle moderne democrazie (“no taxation without representation”) e concesso ai secondi quello assai discutibile della “representation without taxation”.
“Ministra alla disintegrazione”
Con queste premesse, non deve stupire l’asprezza del dibattito scatenatosi in merito alla proposta – avanzata dal ministro all’Integrazione Cécile Kyenge – di affermare lo ius soli come principio per la concessione della cittadinanza italiana. Una soluzione più volte auspicata dallo stesso capo dello Stato Napolitano ma che oltre a una certa freddezza del Pdl ha suscitato la levata di scudi di tutta la Lega Nord. «Questa menata assurda della ministra alla disintegrazione non fa che accelerare un processo di frammentazione della nostra società lanciando all’esterno delle nostre frontiere un segnale sbagliatissimo: venite qui e sarete comunque tutelati in tutto e per tutto» sbotta ad esempio il deputato Gianluca Pini. Proprio lui, che in gioventù si è trasferito in Australia per motivi di studio, denuncia «i problemi di tenuta sociale registrati laddove forti flussi migratori hanno determinato forme significative di melting pot. Sottoposta alle tensioni economiche della globalizzazione, la nostra comunità o applica regole ferree oppure corre il concreto rischio di scomparire. A noi interessa conservare la nostra identità culturale. Per questo vogliamo il mantenimento di una regola base: in Italia si arriva solo per studiare o per lavorare».
Inps, saldo attivo con gli stranieri
Pini evoca «l’impatto economico e sociale devastante» che la cittadinanza automatica a quanti nascono in Italia avrebbe «in termini di appetenza nei confronti degli immigrati irregolari, i cui figli non potrebbero più essere espulsi». Quindi aggiunge che «è un’assoluta balla la storiella per cui gli immigrati contribuiscono con il loro lavoro alle casse dell’Inps: se tornano al loro Paese di origine ritirano tutto quanto». Peccato che l’ufficio stampa dello stesso Istituto, da noi contattato, sostenga esattamente il contrario: «La contribuzione previdenziale dà diritto alla riscossione di una prestazione pensionistica solo dopo 20 anni di versamenti e dopo il conseguimento del requisito anagrafico: e questo vale per tutti i lavoratori, italiani o non italiani. Qualora un lavoratore straniero non raggiunga questo minimo versamento e ritorni poi nel suo Paese d’origine, i contributi potranno essere trasferiti solo in presenza di eventuali accordi bilaterali (a meno che si tratti di un lavoratore comunitario). Peraltro i flussi di versamenti contributivi dei lavoratori stranieri sono stati nel 2011 pari a circa 7,5 mld di euro a fronte dell’erogazione di prestazioni assistenziali per meno di 300 milioni. Il saldo è quindi ampiamente positivo per il sistema previdenziale italiano (e non potrebbe essere diversamente, trattandosi per lo più di lavoratori giovani, lontani dal tempo della pensione)».
Liste di attesa
Il deputato Pini però non demorde e precisa che già la legge consente l’accesso alla nazionalità italiana a quanti risiedono stabilmente da dieci anni nel nostro Paese oppure hanno compiuto la maggiore età: «Prima la procedura amministrativa richiedeva pratiche burocratiche che comportavano dai 3 ai 5 anni di attesa. E’ stato proprio il ministro Maroni a semplificare notevolmente tutto l’iter, che adesso dura pochi mesi. Se quindi c’è qualcuno che ha fatto qualcosa per l’integrazione, quelli siamo proprio noi». Sarà pure, ma i dati del Viminale raccontano anche qui una storia molto diversa: nell’ultimo periodo monitorato (dal 2008 al 2010) hanno ottenuto la cittadinanza soltanto 40mila persone l’anno mentre le istanze in attesa di una risposta risultavano ancora 146.281 all’inizio del 2011.
Viene così il sospetto che si vogliano mettere alla prova i candidati: volete diventare italiani? E allora accomodatevi in fila per anni, apprezzate come noi l’efficienza della burocrazia e provate ad amare come vostro il Paese della carta bollata e dell’impiegato indolente.