La guerra in Ucraina ci sta mettendo dinanzi a un problema enorme come quello dell’accoglienza dei profughi il cui numero cresce significativamente di giorno in giorno (leggi l’articolo), di pari passo con la durata del conflitto, e la cui risoluzione è indicativa dei principi che la nostra comunità incarna. La politica si mostra compatta nell’aiuto agli ucraini e i leader partitici sembrano avere un’unica voce a sostegno della popolazione colpita dal conflitto. Una solidarietà che lascia ammirati, ma che porta con se una domanda: quanto durerà?
La guerra in Ucraina ci sta mettendo dinanzi a un problema enorme come quello dell’accoglienza dei profughi
La guerra voluta da Putin ha sconvolto il mondo spazzando via le divisioni, se non per frange residuali che inneggiano all’autocrate, ma questa unità sarà messa a dura prova su lunga scala temporale. Ammesso vi sia una così ampia prospettiva, qualche esperto direbbe di no ricordando la spada di Damocle che pende sulle nostre teste e che si chiama nucleare.
Tornando a coloro che non hanno tempo di fare congetture ma cercano unicamente di non essere colpiti da una bomba, non basta accordare loro lo status di rifugiati per un anno con l’annullamento della tradizionale e gravosa procedura burocratica per il rilascio della documentazione necessaria, così come non è sufficiente il pur lodevole piano di accoglienza varato dal Viminale che traccia il sistema delle strutture in cui ospitarli.
Serve la reale volontà da parte del nostro Stato di integrare la comunità ucraina – ricordiamo che attualmente è la più grande d’Europa con i suoi quasi 240 mila rappresentanti – destinata a restare sul suolo nazionale non transitoriamente e che abbiamo il dovere di includere innanzitutto abbattendo la barriera linguistica attraverso l’istituzione di corsi di formazione che coprano capillarmente i territori interessati, così da avviare un percorso per cui l’inclusione non rimanga solo uno slogan da campagna elettorale.
D’altra parte siamo il Paese che non riesce a riconoscere la cittadinanza agli italiani, e questo può sembrare uno scherzo, ma non lo è. Persone che parlano la nostra (ormai, anche loro) lingua, che lavorano pagando regolarmente le tasse, che frequentano percorsi di istruzione ininterrottamente da anni in Italia, non hanno la cittadinanza perché il Parlamento non è compatto nel varare una legge che li tuteli riconoscendone i diritti. È uno di quei casi in cui la società anticipa pragmaticamente la politica che ne esce sconfitta, paurosa, incapace.
Lo Ius Scholae garantirebbe la possibilità di dare la cittadinanza ai minori stranieri dopo 5 anni di scuola
Proprio di questi giorni la proposta dello “Ius Scholae” presentata in commissione Affari costituzionali dal presidente e relatore Giuseppe Brescia, del Movimento Cinque Stelle. A differenza del tanto attaccato Ius Soli, la riforma garantirebbe la possibilità di dare la cittadinanza ai minori stranieri dopo 5 anni di scuola in Italia ed entro il dodicesimo anno di età riconoscendo la rilevanza di un percorso scolastico continuativo su un soggetto in formazione. Il Pd ha apprezzato la proposta che non ha nulla di ideologico, ma verte sulla decisa volontà di superare lo Ius Sanguinis tutelando innanzitutto i minori.
La Lega e Fratelli d’Italia sono già sulle barricate e dichiarano battaglia a suon di emendamenti a questo atto di civiltà. Di qui la grande perplessità sulla nostra capacità di accogliere, che siano profughi o migranti, le persone. Specie se ad un anno dalle elezioni.