C’è un partito, trasversale e di giorno in giorno più numeroso. Che va oltre qualsiasi colore o ideologia (ammesso che ancora ne esista una). È il partito di Sergio Mattarella. È il partito di chi, per andare al sodo, ha l’incubo di tornare a votare in tempi rapidissimi. Proprio mentre tra i leader di Lega, M5s e Pd la partita per la formazione del Governo si gioca a suon di veti incrociati, tweet al vetriolo, repliche e controrepliche, in Parlamento gli Onorevoli fanno i conti con la realtà: uno stallo che va avanti dal giorno dopo le elezioni e che, a parte la parentesi che ha portato alla presidenza di Camera e Senato Roberto Fico (M5s) e Maria Elisabetta Alberti Casellati (Forza Italia), sembra destinato a continuare ancora per un po’. Il capo dello Stato lo ha fatto filtrare in tutte le salse: per ora, non vuole nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di riportare il Paese alle urne. Tenterà fino all’ultimo di fare in modo che una soluzione di compromesso si trovi, ma se alla fine i vari Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Maurizio Martina (con l’ombra di Matteo Renzi sullo sfondo) non dovessero cavare un ragno dal buco, è chiaro che non ci sarebbero altre strade – a cominciare da quella del cosiddetto Governo del presidente guidato da un premier terzo – se non quella di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.
In un Parlamento che conta il 64% di neoeletti, è chiaro che la tensione sia altissima. Tra le file di Carroccio e pentastellati però parecchi ostentano serenità, anche perché dopo il voto entrambi i partiti sono cresciuti nei sondaggi e incasserebbero più di quanto già fatto il 4 marzo. Con delle eccezioni, ovviamente. Per esempio: che ne sarà di quel gruppuscolo di deputati e senatori eletti col M5s (7 in tutto) ‘congelato’ nei rispettivi Misti per motivi vari che aspetta il pronunciamento del collegio dei probiviri? L’organismo formato da Riccardo Fraccaro, Nunzia Catalfo e Paola Carinelli ha 90 giorni dalla presentazione delle loro memorie difensive per pronunciarsi. Così, se Giulia Sarti ed Emanuele Dessì sono stati già reintegrati, gli altri (Benedetti, Caiata, Cecconi, Tasso, Vitiello, Buccarella e Martelli) non sanno ancora che fine faranno. Di dimettersi, come spiega uno di loro dietro garanzia di anonimato, non se ne parla, e poi la Camera nella quale siedono dovrebbe dare l’ok (il caso-Vacciano insegna). Ma se si dovesse tornare a votare, è chiaro che per loro il destino sarebbe segnato.
Lo stesso discorso, anche se per motivi chiaramente diversi, vale per Liberi e Uguali. Il partito di Pietro Grasso, che ha eletto 14 deputati e 4 senatori, viaggia stabilmente sotto la soglia del 3% necessaria, Rosatellum alla mano, per sbarcare in Parlamento. Non è un caso perciò se nel suo editoriale sul nuovo numero di Italianieuropei, Massimo D’Alema abbia spiegato come Leu “deve organizzarsi, non per chiudersi in una autosufficienza minoritaria che non avrebbe alcun senso, ma per proporsi come elemento propulsore della costruzione di un nuovo centrosinistra”. Magari, chissà, con un Pd de-renzizzato. Ecco, i dem. Anche al Nazareno qualcuno suda freddo pensando al voto-bis. Come Grasso & C. pure loro hanno perso terreno nelle rilevazioni demoscopiche, il che vorrebbe dire perdere ulteriore rappresentanza nelle Aule. Ma soprattutto: se si rivotasse, chi farebbe le liste? L’idea di Renzi di anticipare il congresso per eleggere il nuovo segretario, ragiona qualcuno dentro al partito, è legata anche a questo aspetto, così da scongiurare il rischio per lui e i suoi di essere condannati all’irrilevanza.
Più o meno lo stesso discorso che si fa dentro Forza Italia e FdI: con la Lega pigliatutto, anche i partiti di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni sanno che adesso come adesso andrebbero incontro a una carneficina. Per non parlare – dulcis in fundo – dei ‘partitini’. Da Civica Popolare a Noi con l’Italia e +Europa: per loro il giro di valzer in Parlamento potrebbe essere molto più breve del previsto. A meno che al Colle non si compia il miracolo.
Twitter: @GiorgioVelardi