di Carola Olmi
Chi pensa che tra femminicidi e incultura maschilista l’Italia non è un Paese per donne, resterà senza parole: riusciamo a farci bacchettare dall’Europa pure sulle pari opportunità. Ma non per l’evidente ritardo sul fronte dell’uguaglianza di genere (non a caso non abbiamo più nemmeno un ministro delle Pari opportunità, e dopo il siluramento di Josefa Idem la delega è finita spacchettata tra diversi ministri e sottosegretari). A sentire Bruxelles i veri svantaggiati sono gli uomini e per questo la Commissione europea si prepara ad aprire una procedura di messa in mora (primo passo verso una procedura d’infrazione) contestando la norma che fissa una differenza tra uomini e donne negli anni di contributi che devono essere versati per ottenere il pensionamento anticipato. La decisione, anticipata ieri dall’agenzia Ansa, dovrebbe essere presa oggi.
Sentenza del 2010
La decisione prende il via da una sentenza dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea datata 18 novembre 2010, che sottolineava come un datore di lavoro di diritto pubblico abbia la facoltà di licenziare gli impiegati che abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia per promuovere l’inserimento professionale di persone più giovani. Questo darebbe un «vantaggio» di cinque anni per le donne, che maturerebbero prima il diritto alla pensione di vecchiaia. Per la Corte questo costituisce una discriminazione basata sul sesso, e vietata dalla direttiva 207 del 1976 che, definendo l’applicazione della parità di trattamento, «implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso ».
Bruxelles, sanzioni a go-go
Così l’Italia finisce nuovamente nel tritacarne delle procedure d’infrazione europee (ma in realtà ci stiamo abituando, visto che ci contestano di tutto: dall’affollamento carcerario alle discariche dei rifiuti). Adesso la legge incriminata è la 214 del 2011 dove, all’articolo 10, si stabilisce che gli anni minimi di contribuzione – validi sia per il settore pubblico che per quello privato – per ottenere la pensione prima di arrivare all’età massima sono fissati in 41 e 3 mesi per le donne e 42 e 3 mesi per gli uomini, con il progetto di aggiungere un ulteriore mese ciascuno per ogni anno successivo. La norma italiana – che peraltro dovrebbe entrare in vigore a gennaio 2014 – è in contrasto anche con l’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Siamo recidivi
Per questi motivi l’Europa a breve invierà al governo una lettera in cui vengono dettagliate le contestazioni e chieste delucidazioni entro un ragionevole lasso di tempo (in genere un paio di mesi). In realtà, però, sulla stessa vicenda non è la prima volta che finiamo nel mirino. Un contenzioso simile era già stato aperto nel 2010 con un vero e proprio ultimatum, sempre per la situazione del pubblico impiego. La questione venne allora risolta dal governo attraverso la riforma che portò anche per le donne, a partire dal 2012, l’età pensionabile a 65 anni. Stavolta però sarà più complesso e, c’è da pensarlo, la mossa europea finirà per spingerci a rimettere mano alle pensioni, accelerando magari qualche nuovo taglio, peraltro sempre rivendicato dagli istituti di previdenza pubblici e privati. Un favore di cui proprio le donne non sentivano il bisogno.