Tanto tuonò che piovve. Nel Pd c’è stato giusto il tempo di superare il trauma del risultato ed è già partita la rincorsa alla testa del partito. Enrico Letta sceglie di presentarsi da solo in conferenza stampa e non è un caso.
Prima di lasciare la segreteria del Pd Letta vuole blindarsi nel partito. Con i fedelissimi alla guida dei Gruppi parlamentari
Comunque la si pensi il segretario del Pd ci ha messo la faccia in tutta la campagna elettorale e ora vuole assumersi da solo la responsabilità della sconfitta. L’analisi a caldo però lascia piuttosto a desiderare se è vero che si innesta sulla linea di tutta la campagna: il fuoco amico, la demonizzazione di Giorgia Meloni e perfino il fantasma di Giuseppe Conte come responsabile della sua confitta.
Letta parla di “un giorno triste” e preannuncia “tempi duri” promettendo “un’opposizione intransigente”. “Se Meloni è a Palazzo Chigi questo è figlio della prima scelta, quella di Conte di far cadere Draghi”, dice il segretario democratico. Ma siamo alle solite: nemmeno la sonora sconfitta riesce a spostare Letta dallo sventolare inutile (se non dannoso) di un governo che è uscito sconfitto dal risultato elettorale.
Poi ce n’è per Calenda (“Sono rimasto amareggiato dai risultati del collegio senatoriale di Emma Bonino per il fuoco amico di Calenda che ha aiutato l’elezione della candidata di destra”) fino al vero annuncio, l’unico che interessa ai dirigenti: il prossimo congresso anticipato. Chi si aspettava le dimissioni immediate del segretario però è rimasto deluso. “In spirito di servizio assicurerò la guida del partito fino al congresso”.
Tradotto significa che vuole essere lui ad assegnare i ruoli parlamentari del governo che viene. Base riformista, la corrente guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti, prende la notizia come un ulteriore schiaffo: dopo essere stata indebolita dalle scelte del segretario nella composizione delle liste ora rischia di rimanere fuori anche dai ruoli che contano in Parlamento.
L’ex ministro Guerini, sempre silenziosissimo tanto da apparire omeopatico, si lascia sfuggire lo struggimento per l’alleanza con Calenda andata in fumo e prepara i suoi uomini nel partito (molti gli ex renziani, chissà se davvero ex) per affilare le armi in vista del prossimo congresso che non può permettersi di sbagliare.
Per indovinare il candidato non ci vuole troppa immaginazione: il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha già soffiato sulla sua candidatura e ai libdem del partito non dispiace per niente. Chi conosce Bonaccini però assicura che difficilmente accetterebbe di farsi tirare i fili da un’unica corrente rischiando di apparire un nome divisivo. Non è un caso che proprio Bonaccini nei giorni scorsi abbia ribadito di come il dialogo con il Movimento 5 Stelle sia “un filo di riprendere” lo scorso 17 settembre.
Nell’ala sinistra del partito, guidata dall’ex ministro Orlando, per ora non c’è ancora un nome da buttare nella mischia. Il sindaco di Bari Antonio Decaro (con molti sindaci del partito) chiede di “smantellare il modello fondante del Pd”. Letta ha parlato di “un Pd nuovo” e in molti hanno pensato a Elly Schlein, che al partito per ora non è nemmeno iscritta ma che politicamente arriva proprio dal Pd, nella corrente che fu di Pippo Civati.
Schlein rischia però di essere un “papa straniero”, troppo pericoloso per gli equilibri della nomenclatura interna (e forse a questo Letta si riferiva). Il pericolo è che ancora una volta la resa dei conti però appaia agli elettori come l’ennesimo assestamento di cabotaggi personali senza nessun reale cambiamento. “Per il Pd ci vuole una scossa – dice un parlamentare rieletto al nord – magari anche dirci che ormai il marchio non funziona e conviene sciogliersi sul serio”. Anche questa, se ci pensate, l’abbiamo già sentita.