di Fabrizio Di Ernesto
Terminati i festeggiamenti di piazza e sparati gli ultimi fuochi di artificio, inizia a prendere forma il nuovo Egitto, quello nato da un altro golpe militare e che sembra aver riportato le lancette della storia indietro di due anni. Deposto, e messo in condizione di non poter lasciare il paese, il presidente Morsi, peraltro il primo democraticamente eletto nella storia dello Stato nordafricano, le forze armate hanno iniziato a delegare i poteri ed organizzare la rinascita del paese.
L’incombenza maggiore spetterà al nuovo presidente, ad interim, Adly Mansour, lo scorso maggio nominato dallo stesso Morsi presidente della Corte costituzionale e chiamato a guidare il paese in un momento di enorme instabilità politica.
La scelta dell’esercito di puntare su questo personaggio ha destato un certo clamore visto che ha fatto una lunga carriera sotto il regime di Mubarak e, a differenza di altri leader dell’opposizione, il suo nome non era mai stato inserito in nessuna rosa di papabili per gestire questa transizione, probabile quindi che proprio questo relativo anonimato abbia alla fine giocato a suo favore con i militari intenzionati a utilizzare una figura apparentemente neutrale per rafforzare la loro posizione.
Le prime conseguenze del golpe
La deposizione di Morsi ed il cambio presidenziale non sembrano però aver placato la voglia di rivalsa delle forze armate che continuano a procedere con le retate in grande stile.
Forze di sicurezza hanno trattenuto il personale della rete qatariota al Jazira presente negli uffici de il Cairo, l’emittente infatti viene considerata molto vicina ai Fratelli musulmani, e proprio gli esponenti del movimento islamista appaiono i grandi sconfitti di questo golpe, tanto che fonti ufficiose parlano di circa 300 arresti tra le loro fila. Va detto che durante la sua reggenza il neo nominato presidente Mansour non avrà mani libere ma dovrà seguire la road map messa a punto dall’esercito con l’aiuto dell’ex premio Nobel per la pace Mohamed el Baradei, futuro capo del governo di transizione.
Nel dettaglio dovrà portare l’Egitto a nuove elezioni presidenziali anticipate, dare una risposta alle esigenze del popolo, ovvero cibo e lavoro, realizzare una vera conciliazione e rimettere in marcia il processo della rivoluzione del 2011, segno tangibile della volontà dei militari di legare gli avvenimenti degli ultimi giorni alle rivolte di piazza di due anni fa.
Da tenere presente che il tutto avverrà senza garanzie costituzionali visto che la Carta varata lo scorso dicembre e fortemente condizionata dal peso e dal ruolo della fazione islamista è stata sospesa con effetto immediato.
Le reazioni delle cancellerie estere
Preoccupati per come la situazione si è evoluta gli Usa, tra i principali sostenitori di Morsi nonché finanziatori delle forze armate locali che sono tornati a rilanciare l’invito alle parti di dialogare e trovare una soluzione condivisa, opzione poco praticabile visto che Morsi, insieme ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori è tenuto in isolamento all’interno del ministero della Difesa, i vertici del partito islamista sono invece trattenuti in un edificio militare.
Per quanto riguarda invece la questione inerente gli aiuti militari promessi da Washington a il Cairo Patrick Leahy, presidente della commissione del Senato interessata alla materia, ha già lanciato il suo monito ai militari ricordando che la legge statunitense impone il taglio degli aiuti economici quando un governo democraticamente eletto viene deposto da un golpe militare o da un decreto, parole che mettono a rischio 1,5 miliardi di dollari. Più possibilisti i britannici che con il ministro degli Esteri William Hauge aprono al riconoscimento della nuova amministrazione e ad una fattiva collaborazione, mentre l’Italia come sempre tergiversa e per il momento preferisce non prendere una posizione ufficiale in attesa che l’evolversi della vicenda chiarisca la portata del golpe e i reali obiettivi dei militari. Soddisfazione per la piega presa dagli eventi nel paese nord africano è invece stata espressa da quasi tutti i paesi arabi con il presidente siriano Bashar al Assad che definisce il progetto islamico della fratellanza destinato a fallire poiché mira unicamente “a seminare zizzania nel mondo arabo”. Tra le poche voci fuori dal coro da segnalare quella della Turchia che definisce inaccettabile la destituzione di Morsi e ne chiede l’immediato rilascio.