Dimenticare Letta e Bisignani
La parola d’ordine, nella primavera del 2014, fu “cambiamento totale”. Quella delle nomine ai vertici delle grandi aziende di Stato, a cominciare da due mezzi ministeri come Eni ed Enel, fu la prima vera partita di peso affrontata da Matteo Renzi dopo la conquista del potere. Ai tempi di Silvio Berlusconi, che da imprenditore fieramente privato aveva il pregio di non dedicarsi alla lottizzazione, per un posto al sole si passava per gli uffici di Gianni Letta, Giulio Tremonti, Marco Milanese e del lobbista Luigi Bisignani. Con Renzi il ministero dell’Economia è stato quasi esautorato e a decidere sono stati i consiglieri personali dell’ex sindaco fiorentino come Marco Carrai, Davide Serra, Andrea Guerra, Yoram Gutgeld e Luca Lotti. Il risultato è stato un mix di nomine bizzarro, che ha portato nei cda una spruzzata di donne come presidenti e consiglieri, ma senza veri poteri e, in definitiva, nell’ambito di un’operazione di pura immagine. Quanto ai capi azienda, è vero che Renzi ha trovato il coraggio di liberarsi di un personaggio ingombrante come Paolo Scaroni, alla guida dell’Eni in virtù dei suoi grandi rapporti con la russa Gazprom e con Vladimir Putin, ma è anche vero che l’operazione è stata indubbiamente “facilitata” dagli Stati Uniti. Tanto è vero che il successore, Claudio Descalzi, ha prontamente cambiato la politica delle alleanze. Renzi aveva anche promesso una bella ondata di privatizzazioni, ma ad oggi si può registrare solo quella di Poste, con la regia di Caio, imposto però da Napolitano.
MATTEO RENZI: voto 5 PIER CARLO PADOAN: N.G.
Strade perdute e Anas va in treno
Il cambio della guardia in Anas non era rinviabile da tempo, ma il Governo ha aspettato che crollassero fisicamente i viadotti prima di affrontare una situazione che nelle settimane successive ha visto crollare anche un po’ di dirigenti sotto le accuse della magistratura. Oggi così è esattamente un anno che Gianni Armani (5) guida il colosso ereditato da Piero Ciucci e da una montagna di burocrazia dietro la quale ha proliferato ogni tipo di dama nera. Nel primo anno, tra inchieste e voglia di mostrare un cambio di passo, non è successo però niente di eclatante se non l’avvio del piano che rischia di far diventare ancora più gigantesca e incontrollabile l’azienda, attraverso una fusione con le Ferrovie. Di un tale modello non ci sono molti confronti al mondo e il progetto rischia di far perdere le specializzazioni che due attività ben distinte – su gomma e rotaia – hanno sviluppato nelle rispettive società di gestione. Il piano in questo modo minaccia di trasformare due debolezze non in una forza, ma in una debolezza maggiore. L’operazione che piace ad advisor, banche e studi legali (che ovviamente ci guadagnano) ha bisogno ora di essere definita. Solo dopo si saprà se può funzionare o diventare un nuovo disastro per strade e ferrovie.
GIANNI ARMANI: voto 5
Poste, il colosso è diventato produttivo
I risultati dell’ultima trimestrale parlano da soli. I ricavi saliti del 14% a 9,8 miliardi di euro, la generazione di cassa, pari a 248 milioni, e la posizione finanziaria netta industriale, positiva per 118 milioni, confermano la capacità del Gruppo di sostenere il suo piano di investimenti, una politica di dividendi pari all’80% del suo utile netto e a valutare opportunità di sviluppo strategico. Con Poste Italiane il Governo dunque ci ha preso, soprattutto se si considera cos’era questo colosso prima della privatizzazione conseguita a tappe forzate dall’amministratore delegato Francesco Caio (voto 81/2). Così nel 2015 il gruppo ha visto gli utili raddoppiare da 212 a 552 milioni e il Tesoro ha incassato un assegno di circa tre mililiardi. All’epoca qualcuno girò il naso, ipotizzando chissà quali migliori risultati possibili. In realtà Poste aveva centrato l’ultima grande quotazione prima di un periodo di forte turbolenza dei mercati, portando a casa un risultato che già solo dopo pochi mesi sarebbe stato impossibile ottenere. Tra i risultati rilevanti della gestione Caio, inoltre, un’ampia riorganizzazione e valorizzazione del personale, e il rinnovo delle tariffe nel settore postale, che hanno mitigato l’effetto del calo di volumi della corrispondenza sui ricavi. Molto attiva la presidente Luisa Todini (7).
LUISA TODINI: voto 7 FRANCESCO CAIO: voto 8,5
Ferrovie dello Stato, quotazione sul binario morto
Secondo i programmi doveva essere già quotato in Borsa. Invece il gruppo Ferrovie dello Stato si trova impantanato in un più che farraginoso progetto di fusione con l’Anas. Calato dall’alto dalla solita banca estera, il piano teoricamente ha l’intenzione di creare sinergie ma il rischio è che l’effetto finale, tra tariffe e tasse, possa scaricarsi sui consumatori. Di sicuro il Governo le ha provate tutte per dotare Fs delle risorse necessarie alla quotazione. A fine 2015, per esempio, dopo un procedimento a dir poco faticoso, Terna è stata spinta a sganciare a Fs più di 700 milioni di euro come corrispettivo d’acquisto della rete elettrica. Ma nonostante questa inziezione di liquidità lo sbarco in Borsa è stato rinviato al 2017. Nel frattempo, per dissapori e incomprensioni varie, sono stati messi alla porta l’ex presidente Marcello Messori e l’ex Ad Michele Mario Elia. Al loro posto, da poco, sono arrivati Gioia Ghezzi (voto 6 sulla fiducia) e Renato Mazzoncini (voto 6, come prima). Prematuro quindi dare un giudizio su come i due stiano maneggiando il dossier. Di sicuro Mazzoncini rappresenta la solita nomina di estrazione renziana. Da Ad di Busitalia, infatti, acquistò la società fiorentina di trasporto pubblico, consentendo al Comune allora guidato da Renzi di fare cassa.
GIOIA GHEZZI: voto 6 RENATO MAZZONCINI: voto 6
Vertici di Viale Mazzini. Perfetti a Chi l’ha visto?
La nomina di Monica Maggioni (voto 3) e Antonio Campo Dall’Orto (voto 3) alle presidenza e alla direzione generale della Rai è ancora lontana dal traguardo dei due anni (a differenza degli altri manager presi in esame in queste pagine) ma la Rai è già un caso nel panorama delle ultime scelte del Governo. Se c’è infatti un’azienda nella quale il Presidente del Consiglio è certamente deluso dal nuovo management questa è proprio la tv pubblica. A distanza di nove mesi dagli incarichi in azienda non è successo assolutamente niente se non un’infornata di dirigenti esterni. E dire che Palazzo Chigi s’è dato da fare anche per aumentare le risorse disponibili, mettendo il canone nella bolletta elettrica, con una forzatura che costerà caro agli operatori dell’energia e chissà quanti contenziosi andrà a produrre già dalle prossime settimane. Maggioni e Campo Dall’Orto che cosa hanno prodotto invece? La riorganizzazione dell’informazione messa a punto dal precedente direttore generale Luigi Gubitosi è stata accantonata e i direttori dei Tg sono rimasti tutti al loro posto. Per difendere le poltrone i direttori però hanno pagato pegno e gli ultimi dati sulla presenza in video del Governo sono imbarazzanti. Mai nessun premier e la sua maggioranza avevano avuto tanto spazio sullo schermo. Un dilagare del Renzipensiero che comunque è sempre poco per un Presidente del Consiglio che se potesse farebbe dall’annunciatrice dei programmi del mattino fino alla chiusura notturna di Marzullo. In azienda inoltre sono rimasti i soliti baroni, a partire da Bruno Vespa diventato più imbarazzante nelle sue interviste ai nuovi leader politici che parlano di rottamazione (proprio con chi fa Porta a Porta da venti anni) piuttosto che ospitando i vari Casamonica e Riina Jr. Anche i primi tagli, nella conduzione di Ballarò piuttosto che a Virus, non sono stati affrontati con un piano chiaro e trasparente, passando così per semplici epurazioni di giornalisti sgraditi. Da comica infine il Consiglio di amministrazione, con un manipolo di pensionati che vuole lo stipendio e Freccero che spara su tutto.
MONICA MAGGIONI: voto 3 ANTONIO CAMPO DALL’ORTO: voto 3
Enel, dalla lampadina al web per galleggiare
A due anni dall’insediamento di Francesco Starace il debito del gruppo elettrico scende lentamente, nonostante il Governo decisamente amico le stia provando tutte. A partire dal regalo della banda ultralarga della telefonia (con annessi cinque miliardi di investimenti pubblici) dirottata dall’operatore naturale Telecom (o le altre società del settore) al colosso elettrico che per l’occasione dovrà industriarsi nell’imparare un mestiere nuovo. Nei due anni Starace ha puntato davvero sulle rinnovabili, ma anche per il calo della domanda e del fatturato non è riuscito a segnare alcun cambiamento significativo dell’azienda. Unica eccezione la frettolosa retromarcia su Enel Green Power, riportata dentro la casa madre dopo solo pochi anni dalla scorporo. Per giustificare i pochi risultati, l’Ad è ricorso a un costoso tocco di vernice, cambiando il logo dell’azienda. Sotto i colori sgargianti però si sta già giocando una infida partita per la successione, con il country manager per l’Italia Carlo Tamburi che lavora con parte del giglio magico renziano per sfilare la poltrona dell’Ad, spesso impegnato su fronti lontani come l’America latina, dove il mercato dell’energia è meno saturo. Il titolo due anni fa (in piena crisi dei mercati) era a 4,23 euro mentre ieri stava persino peggio, a quota 3,95. Ciò nonostante l’ambizione di Starace non ha freni e il manager studia per imitare Scaroni con la promozione da Enel in Eni. Uno scenario per il quale potrebbe non essere casuale la decisione del Governo di inviare il fratello ambasciatore in Libia. Impalpabile nelle vicende di potere interne la presidente Maria Patrizia Grieco (voto 5). Più illusionista che efficace Starace (voto 4).
MARIA PATRIZIA GRIECO: voto 5 FRANCESCO STARACE: voto 4
Inps, un ente che si mette a fare politica
L’Inps non è un’azienda, anche prova ad esserlo da qualche anno. E’ semplicemente la garanzia di una vecchiaia dignitosa per milioni di italiani. Sarà per questo che per guidare l’ente che eroga le pensioni Matteo Renzi non ha scelto un manager, ma un economista dalla penna fluente e dalla lingua svelta come Tito Boeri (voto 5). E i risultati, chiamiamoli così, si sono visti. Il professore che vergava dotte articolesse su Repubblica e gode del sostegno incondizionato dell’amico Carlo De Benedetti, in questo anno e mezzo di presidenza non ha praticamente fatto passare una settimana senza esternare la propria opinione sulla riforma delle pensioni. Idee spesso condivisibili, anche se un po’ terroristiche, ma che hanno fatto storcere il naso a mezzo Parlamento. L’obiezione più diffusa è stata: ma Boeri non dovrebbe gestire l’Inps, anzichè sostituirsi al legislatore o al governo? E in effetti corre voce che lui si vedrebbe molto bene al posto del ministro del Welfare Giuliano Poletti, entrato nel cono d’ombra renziano. L’unica misura concreta voluta da Boeri è stato l’invio delle famose buste arancioni con l’importo delle pensioni future a un campione selezionato di italiani. Annunciata quasi una volta al mese per un anno, l’operazione è partita solo nei giorni scorsi.
TITO BOERI: voto 5
Finmeccanica, un Leonardo piccolo piccolo
A guardare i numeri in Borsa, il nuovo corso di Finmeccanica è travolgente. Due anni fa (12 maggio 2014) il titolo valeva a Piazza Affari 5,97 euro, mentre ieri ha chiuso a 10,47 euro. In realtà però non è tutto oro quello che luccica, e se l’Ad Mauro Moretti (voto 4) ha ampiamente riorganizzato l’azienda è anche vero che ha tagliato drasticamente il perimetro dei business. Un ridimensionamento coperto con la vernice di un cambio di nome (Leonardo – Finmeccanica) che è evidente a tutti non servirà a vendere un solo aereo in più. Perciò l’ex ferroviere diventato chissà come mai intimo del premier ha preso esempio direttamente da Palazzo Chigi, avventurandosi in annunci che in politica però funzionano meglio che negli affari. Di qui il lancio nelle automobili in stile Google, barzelletta che meglio non sarebbe riuscita neppure a Berlusconi. Anche nelle cose fatte il bilancio è imbarazzante, come nel caso del pasticcio della cessione di Ansaldo a Hitachi (finita nel mirino delle Fiamme gialle). Problemi di protocollo (e qualche incidente con i regali al ministro della Difesa, Pinotti) hanno anche ritardato la maxi commessa dei 28 Eurofighter Typhoon dal Kuwait. In un angolo De Gennaro (voto 4). Oggi così Finmeccanica è meno indebitata, ma più piccola. Altro che Leonardo.
GIANNI DE GENNARO: voto 4 MAURO MORETTI: voto 4
Terna. Titolo al top, ma con business regolato
A giudicare dai picchi record raggiunti in Borsa da Terna negli ultimi tempi, con il titolo che ha sfondato il valore dei 5 euro, la valutazione del management non dovrebbe far altro che essere positiva. C’è però da dire che Terna, società di gestione della rete nazionale di trasmissione dell’energia elettrica, di fatto “maneggia” un business regolato, in un certo senso sicuro e senza troppo rischi di impresa. Il fatturato della società, presieduta da Catia Bastioli (vote 6) e guidata dall’Ad Matteo Del Fante (voto 6), deriva infatti dai soldi che vengono versati dalle società distributrici di energia che non possono fare a meno di accedere all’infrastruttura gestita da Terna. Per questo diventa difficile esprimere un giudizio sul management. Peraltro, sulla base di un passaggio non proprio ben costruito di una precedente legge Finanziaria, Terna è stata costretta a comprare a fine 2015 la rete elettrica di Ferrovie dello Stato sborsando più di 700 milioni. Probabilmente i vertici della società ne avrebbero fatto a meno. Del Fante, va ricordato, è una delle tante nomine di estrazione renziana. Fiorentino, era a capo di Cdp Investimenti quando questa società rilevò, all’interno di un più vasto pacchetto di immobili sparsi in tutta Italia, anche il Teatro di Firenze, consentendo alle casse del Comune allora guidato da Renzi di prendere una bella boccata d’ossigeno.
CATIA BASTIOLI: voto 6 MATTEO DEL FANTE: voto 6
Eni, l’azienda ha resistito a un pieno di guai
Tre terremoti, uno dietro l’altro, non hanno piegato l’Eni e il suo Ad Claudio Descalzi, nonostante Renzi sia dovuto intervenire più volte anche in Parlamento per confermarne la poltrona. I tre terremoti sono stati il mercato del greggio, con quotazioni crollate fino a 30 dollari il barile, l’addio al gasdotto South Stream e le inchieste giudiziarie. Ciò nonostante l’Eni è riuscita persino a diminuire i debiti, senza fare troppa macelleria sociale, e a confermare persino per l’anno terribile 2015 un dividendo di 80 centesimi per azione, staccando un maxi assegno di 749 milioni all’azionista Cdp e di 126 milioni al Tesoro. La perdita dell’esercizio 2015, seppure stratosferica a quota 8,82 miliardi, riporta un utile netto adjusted “su base stand alone” positivo per 0,34 miliardi. Il management insomma si è dato da fare e al di quella che poteva essere una tempesta perfetta ha tenuto la nave fuori dalle acque più pericolose. Inevitabilmente rispetto a due anni fa il titolo ha però risentito ampiamente di questa situazione di mercato. Il valore è passato infatti dai 19 euro del 12 maggio 2014 ai 13,57 di ieri. Di profilo istituzionale e al largo da ogni ombra di conflitto d’interessi la presidente Emma Marcegalia (voto 6). Battagliero nel difendersi (come nel caso dell’inchiesta Rai di Report) e innovativo nell’allargare l’attività a nuovi possibili business, come nel caso della produzione di energia da rinnovabili, Descalzi (voto 7). Tanto fortunato nel trovare un importante giacimento in Egitto quanto capace di non farsi schiacciare nella crisi tra Roma e Il Cairo per l’assassinio del ricercatore Giulio Regeni. Tra le operazioni da incorniciare c’è poi il provvidenziale deconsolidamento di Saipem, con la cessione del 12,5% al Fsi. Ma se c’è un aspetto di cui va dato atto al management è la capacità di tenere alta la generazione di cassa, e di procedere senza fratture su strategie centrali come la definizione di quale ruolo giocare – se è il caso di giocare – in futuro nella chimica. Un lavoro che le inchieste giudiziarie, con ultima quella di Potenza, per ora non hanno distratto più di tanto.
EMMA MARCEGAGLIA: voto 6 CLAUDIO DESCALZI: voto 7