di Nicoletta Appignani
Può accadere che un nuovo indizio in un caso di cronaca, uno di quelli che ha fatto riversare fiumi di inchiostro su centinaia di pagine italiane, incontri l’assoluta diffidenza del pubblico? Sì. Può succedere se per 30 anni intorno ad un evento sono ruotate una lista infinita di dichiarazioni senza riscontro, piste false, personaggi celati nell’ombra che millantavano coinvolgimenti inesitenti. Il caso in questione è quello di Emanuela Orlandi, la quindicenne sparita a Roma il 22 giugno 1983. E la nuova dichiarazione arriva da un testimone, che avrebbe riferito alla Procura di aver preso parte al sequestro della giovane. Un’autodenuncia della stessa persona che 20 giorni fa ha permesso il ritrovamento di un flauto, acquisito dalla Procura, che potrebbe – forse, chissà – essere appartenuto alla ragazza. Ancora non è certo che quello sia lo strumento di Emanuela ma, secondo la famiglia, si tratta certamente di un flauto molto simile. Ritrovato avvolto in un foglio di giornale del 29 maggio 1985. Ed ora ecco la nuova rivelazione: «Partecipai al sequestro di Emanuela. Io ero uno dei telefonisti». Si penserebbe a una svolta. In molti, tra gli iscritti alla pagina Facebook della petizione lanciata da Pietro Orlandi, vanno a leggere la notizia. Sorpresa? Nuove speranze? No: “ennesimo depistaggio”, sentenziano i lettori, che definiscono la dichiarazione soltanto “apparentemente credibile”. “Un filo di verità per avallare il successivo filo di menzogna”. L’opera di “un folle”. Insomma, nessuno viene più preso sul serio. Perchè a gridare al lupo, in questi anni, sono stati davvero in troppi.
30 anni di telefonate
All’inizio fu “Pierluigi”. Non il primo a chiamare la famiglia Orlandi, ma quello che più di altri insinuò dei dubbi. Raccontò di aver incontrato una ragazza a Campo dei Fiori: una giovane che vendeva cosmetici e portava con se un flauto. Astigmatica, come Emanuela. Aveva detto di chiamarsi Barbara. Il ragazzo chiamò un ‘altra volta e poi rifiutò ogni tipo di collaborazione. Fine primo atto.
Poi fu il turno di “Mario”. Che confermò quanto detto da Pierluigi e raccontò che Barbara, alias Emanuela, si sarebbe allontanata volontariamente. La famiglia non gli credette e lui scomparve, anche se con il tempo si iniziò sospettare che si trattasse di un membro della Banda della Magliana.
Ma più di tutti, si ricorda l’uomo che per il suo spiccato accento anglosassone venne ribattezzato “l’Amerikano”: un personaggio di cui non si conosce l’identità e che per molto tempo chiamò la famiglia Orlandi chiedendo addirittura l’attivazione di una linea telefonica diretta con il Vaticano.
L’attentatore del Papa
Un nome e cognome invece c’è per il più “illustre” fra i personaggi che hanno parlato del caso: Alì Agca, l’attentatore del Papa, che più volte – e anche in tempi recenti – si è espresso sul sequestro di Emanuela. Il caso dunque, almeno idealmente, si è intrecciato con il ferimento di Giovanni Paolo II. Contributi effettivi a far luce sulla vicenda però nessuno.
L’illustre sepolto
Sono trascorsi 22 anni dalla scomparsa di Emanuela quando, nel luglio 2005, alla redazione del programma “Chi l’ha visto?” arriva una telefonata, naturalmente anonima: “Per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare e il favore che Renatino fece al cardinal Poletti all’epoca”. Si scopre che nella tomba è sepolto Enrico De Pedis: il capo della Banda della Magliana, accusato poi dall’ex amante Sabrina Minardi di aver personalmente rapito Emanuela e di aver portato il suo cadavere a Torvaianica, murandolo nella parete di una villa in costruzione insieme a quello del piccolo Domenico Nicitra. Che però sparì nel 1993: 10 anni dopo la ragazza.
Un solo rapitore
A queste segnalazioni, negli anni se ne aggiungono altre ancora. Nel 2011 un nuovo mister X rivela che la scomparsa della giovane è collegata a quella di Mirella Gregori, la ragazzina sparita da Roma il 7 maggio 1983, pochi giorni prima di Emanuela Orlandi. Una pista non nuova agli inquirenti, che più volte hanno tentato di trovare un collegamento
“Sono stato io”
Torniamo quindi ad oggi. Sembra fin troppo chiaro perchè non ci sia più alcuna fiducia nei supertestimoni, nelle telefonate anonime, nelle lettere. In 30 anni neanche una pista si è rivelata valida. Nessuna tra le persone indagate è stata mai rinviata a giudizio. E mentre la famiglia Orlandi continua a cercare Emanuela, a sperare che sia viva, il circo intorno a questa storia sembra destinato a non fermarsi mai.