Nacquero nel 1945, furono formalmente abolite nel 1972 ma, a distanza di quasi ottant’anni, le cosiddette “gabbie salariali” – vale a dire la differenziazione dei salari tra Nord e Sud in base al costo della vita, che un pezzo di centrodestra vorrebbe ora riesumare – sono vive e lottano insieme a noi. A sentenziarlo è un’elaborazione realizzata dalla Cgia di Mestre su dati Inps e Istat, pubblicata lo scorso 7 settembre. “Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste e in molti casi sono addirittura aumentate” perché “nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie/assicurative/bancarie, che tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media, sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord” mette nero su bianco l’associazione.
“Le tipologie di queste aziende – si fa notare nel report – dispongono anche di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante. Non va nemmeno scordato che il lavoro irregolare, molto diffuso nel Mezzogiorno, da sempre provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori che tradizionalmente sono investiti da questa piaga sociale (agricoltura, servizi alla persona, commercio, etc.)”. Nello specifico: se gli occupati delle Regioni settentrionali percepiscono una retribuzione media giornaliera lorda di 101 euro, i colleghi meridionali ne guadagnano 75. Un delta del 35% dovuto principalmente alla produttività del lavoro, che al Nord è del 34% superiore rispetto al Sud dove, nel 2022, il numero medio di giornate retribuite è stato pari a 225 contro le 253 del settentrione. La ricetta suggerita dalla Cgia, che rigetta l’idea di istituire un salario minimo legale, è di contrastare l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto, continuare nel taglio dell’Irpef e incentivare la contrattazione collettiva decentrata. Ciascuno ha le proprie idee, ma è evidente che se non affronta il problema alla radice qualsiasi rimedio rischia di essere inutile.
E il problema, oltre ai salari (l’Italia è il Paese avanzato con gli stipendi più bassi), è legato al fatto che il 56% della nostra forza lavoro è occupata nei servizi e solo il 20% nell’industria. L’ex presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, l’ha definita una “economia da bar”, dove agli investimenti in innovazione si preferisce la svalutazione del lavoro e i bassi salari. Non è un caso se, mentre l’occupazione aumenta, il Pil cresce dello zero-virgola e la produzione industriale è in calo da 18 mesi consecutivi. Un cane che si morde la coda, ancora e ancora.