Non c’è che dire. Tra slogan e frasi ad effetto, nell’arte della comunicazione, Giorgia Meloni può dare lezioni. Le Europee non fanno eccezione. Con la sua candidatura – unico caso tra i leader dei Paesi Ue – la premier ha caricato la sfida elettorale di un significato che va ben oltre il rinnovo dell’Europarlamento: un referendum sul suo gradimento e una cartina di tornasole per misurare il consenso del suo esecutivo.
Un voto per confermare o smentire la “rivoluzione” di cui si fa portavoce. “Voglio sapere dagli italiani se sono soddisfatti del lavoro che stiamo facendo, sia a livello nazionale che europeo”, ha detto la premier in una recente intervista al Tempo.
Le Europee trasformate da Meloni in referendum: su se stessa
Eppure nei comizi, negli spot e nei talk show la leader di Fratelli d’Italia si è ben guardata dall’affrontare i veri nodi politici e le sfide che si giocano nell’Unione. Il target di Meloni è un risultato vicino a quello delle ultime Politiche, per distanziare il Pd e mettere una pietra tombale sui progetti di rivalsa di Matteo Salvini.
Un obiettivo ambizioso, considerando che alle politiche FdI aveva raggiunto il 26,4%. Non scendere sotto quella soglia, o avvicinarcisi, le permetterebbe di mantenere lo status quo. Un metro di giudizio probabilmente basso per chi ha parlato di “onda rivoluzionaria” e di “partito dell’interesse nazionale”.
Ma del resto coerente con un governo che finora non ha certo brillato per visione e risultati conseguiti. L’assenza di un confronto sui temi europei è fin troppo evidente. Dalla riforma del Patto di stabilità Ue alla gestione dell’immigrazione, dai rapporti con la Cina alle regole sugli aiuti di Stato fino all’enorme tema delle guerre in corso, Meloni si è trincerata dietro accuse generiche all’Ue burocratica e all’eccesso di tecnicismi.
Una linea buona per svicolare da questioni dirimenti ma non certamente utili ai canoni di una campagna elettorale. Le urne hanno oscurato il merito delle questioni, trasformando il voto in un plebiscito pro o contro Giorgia. La vera posta in gioco per Meloni è riuscire a scardinare l’asse Ppe-Socialisti-Liberali che da sempre governa le istituzioni comunitarie.
La presidente del Consiglio punta ad affermarsi come leader di un nuovo polo conservatore, alleandosi con le destre europee per insediarsi al vertice e plasmare l’Ue a sua immagine e somiglianza. Ma anche qui manca una visione organica, un progetto di società e di sviluppo.
A prevalere sono le ostilità ideologiche, l’accusa contro un’Europa “islamizzata”, il richiamo all’orgoglio identitario. In Italia l’obiettivo di Meloni è blindare la leadership del centrodestra, marginalizzando gli alleati pur di presentarsi come l’unica interprete della “nazione”. La sua campagna è stata un concentrato di attacchi agli avversari. Un duello tutto giocato sullo stile e le etichette, senza proposte concrete sul futuro dell’Europa.
Slogan ad effetto
La sfida è riuscire a dar voce a italiani e patrioti, recita il mantra meloniano. Parole evocative, buone per solleticare un certo elettorato. Laddove servirebbero, però, idee per accompagnare la transizione verde e digitale, gestire i flussi migratori, riformare la governance economica.
Non un’indicazione in merito, solo frasi ad effetto come “Bruxelles non ci dica cosa mangiare” o “motivazioni folli”, rivolto all’Ue per la procedura d’infrazione contro l’Italia sui requisiti richiesti dall’Assegno unico per i figli che secondo l’Ue discriminerebbero i migranti.
Del resto la campagna con cui Meloni & C. hanno assediato le tv e le piazze è figlia di questa impostazione: spot con cori da stadio e slogan che gridano “Ritorneremo ad essere grandi”, senza spiegare come. Rimane sospesa una domanda: e se Giorgia perdesse il referendum che ha indetto su sé stessa, che conseguenze ne trarrebbe?