Più che una catena di sfortunati errori, quella descritta dalle carte dell’inchiesta sul Pio Albergo Trivulzio assomiglia sempre più a una tragedia preannunciata. Almeno questo è quanto emerge dalle lettura delle denunce, depositate alla Procura di Milano, di chi lavora all’interno del polo per anziani più grande d’Italia e punta il dito contro i vertici della struttura. Insufficiente isolamento dei nuovi pazienti, mancata sospensione delle visite ai residenti da parte di parenti vicini alla zona rossa, ospiti non ancora negativizzati ma spostati da un reparto all’altro, tamponi fatti in modo grossolano e, per concludere, minacce ai dipendenti che indossano la mascherina. Non può che lasciare sotto choc la lettura delle dichiarazioni degli infermieri e dei sindacalisti del Trivulzio dove, è bene ricordarlo, tra gennaio e aprile sono morti 300 anziani e oltre 200 operatori sono risultati in malattia o in quarantena.
AMMONIMENTI INQUIETANTI. Tra i documenti più inquietanti spicca la denuncia di Franco Ottino, infermiere del Trivulzio e sindacalista Cisl. Ai pm l’uomo ha raccontato che a fine febbraio “il personale era perfettamente consapevole di poter rappresentare un potenziale vettore del virus” e per questo chiedeva, vanamente, di usare le mascherine. L’11 marzo, continuando a mancare i dispositivi di protezione individuale, Ottino scrive una lettera “alla Direzione della Rsa” segnalando che gli operatori sono “impossibilitati a mantenere la distanza di sicurezza prevista dalle disposizioni dell’Oms” e che hanno bisogno delle mascherine. Ma il direttore generale Giuseppe Calicchio, indagato nell’inchiesta per epidemia colposa, prende carta e penna e risponde: “Nessuna disposizione nazionale o regionale è disattesa o sottovalutata e la mancata applicazione di regole dettate da puro allarmismo, piuttosto che da competenza, non è evidentemente mancanza di tutela per gli operatori”.
Insomma a suo dire i dipendenti stavano esagerando. Una linea di condotta poi sfociata in due gravi episodi. Il primo nei reparti Schiaffinati e Grossoni dove, spiega Ottino, “tra il 14 e il 15 marzo” alcuni medici avrebbero dato “indicazione al personale di non indossare le mascherine” perché, secondo loro, “i soggetti asintomatici non erano portatori di contagio”. Il secondo episodio avviene “il 17 o il 18 marzo” quando il dg indagato “avrebbe intimato a un infermiere di togliersi la mascherina, minacciandolo, in caso di rifiuto, con l’immediato licenziamento”.
PASTI NEL SALONE COMUNE. Ma le anomalie non sono finite. Nella denuncia di un’infermiera si assiste ad un altro film horror. Dopo “il primo decesso anomalo” del 10 marzo, gli infermieri decidono di servire il cibo “presso le stanze dei pazienti” per evitare contagi ma i medici del Trivulzio si sarebbero opposti chiedendo di continuare a servire i pasti agli anziani nel salone comune. Non solo. Nell’atto la donna ha lamentato anche “irregolarità” nell’esecuzione dei tamponi al Trivulzio effettuati “solamente” a partire “dal 20 aprile” e, per giunta, fatti in malo modo perché non venivano inseriti “in profondità nella zona retro tonsillare, né tanto meno nella posteriore della rinofaringe”. Come se non bastasse, “senza attendere l’esito del secondo” tampone, “gli ospiti negativi venivano subito spostati in altri reparti”. Ma c’è di più perché quando il personale si accorse del primo caso di sospetto Covid, non sono state bloccate le visite dei parenti. Neanche quelle di quelli “provenienti da Comuni limitrofi” alla “zona rossa” del Lodigiano.