“Non respiro più” le ultime parole di Francesco Pio Maimone (nella foto), il diciottenne ucciso a Mergellina con un colpo di revolver in pieno petto per una macchia sulle scarpe, quella che l’omicida in preda alla furia si sarebbe ritrovato sulle sue sneakers dopo l’accidentale urto con un gruppo di ragazzi. L’ipocrisia che caratterizza parte dell’opinione pubblica cela male il retro-pensiero che anima le riflessioni dei benpensanti che, consapevoli delle peculiarità territoriali del napoletano, ritengono che l’uccisione del ragazzo possa essere una resa dei conti, un “se l’è andata a cercare” perché in fondo – anche a quell’età – è facile essere affiliati alla criminalità locale.
A Mergellina l’ultima tragedia. Il diciottenne Francesco Pio Maimone ucciso con un colpo di revolver in pieno petto
La famiglia di Francesco Pio che grida giustizia ribadisce con forza la centralità di non essere associati alla camorra perché questo ragazzo, come le prime ricostruzioni degli inquirenti confermano, è il “figlio dell’Italia che vorremmo” quella fatta di speranza, sacrificio e fiducia nello Stato. Perché Francesco Pio dedicava il suo tempo al lavoro, non uno “scansafatiche” che voleva i soldi facili, e aveva scelto di non abbandonare la sua terra nonostante le difficoltà che questa presenta aggrappandosi a uno strumento come “Resto al Sud”
Quanti i ragazzi come lui che chiedono unicamente di essere protetti e sostenuti dalle istituzioni che troppo spesso li abbandonano? Non è retorica populista, sono i fatti a dirci quanto siano frequenti territori che sfuggono alla legalità in cui tutto può accadere come se fosse “fisiologico”, consentito. Le sparatorie non sono un fatto inedito anche tra i più giovani in alcuni territori del napoletano, così come anche in altre realtà italiane.
Allora, perché non intensificare i controlli da parte delle forze dell’ordine dando loro maggiore potere di intervento? Se quella sera ci fosse stata una volante a pattugliare la zona, nulla di tutto ciò sarebbe accaduto. È evidente che “militarizzare” i territori non sia la risposta univoca al fenomeno delle baby gang, così come al disagio giovanile che assume le forme della criminalità e della violenza fine a se stessa, ma è certamente un buon modo per contenerlo.
Come un mantra ripetiamo da anni quanto sia necessario investire in formazione culturale, aprire centri di aggregazione, giungere capillarmente nelle periferie da riqualificare con interventi ad hoc, valorizzare il ruolo dello sport nella vita dei più giovani – eppure – ogni triste fatto di cronaca, da non leggere isolatamente ma in una chiave di responsabilità dello Stato, dunque della politica. Si riparta da questo drammatico fatto per ripensare alle politiche di inclusione dei giovani, al lavoro non precario, investendo sul loto futuro che coincide con quello del nostro Paese.