Davanti alla società che cambia digitalizzandosi, le mafie non restano a guardare ma evolvono e si aprono al web. Questo il quadro portato alla luce dal rapporto Le mafie nell’era digitale, stilato dalla Fondazione Magna Grecia e presentato ieri alla Camera, che mostra come i boss sono riusciti a organizzarsi trasformandosi in ‘influencer’ capaci di promuovere le proprie attività abbracciando i principali social network come Facebook ma soprattutto Instagram, Twitter e Tik Tok.
I clan sfruttano internet per promuoversi e fare affari. Ma secondo un report l’Italia è rimasta con le armi spuntate
Il drammatico report è stato raccontato da Antonio Nicaso, docente di Storia della criminalità organizzata presso la Queen’s University in Canada, Marcello Ravveduto, professore di Public and digital history alle Università di Salerno e di Modena-Reggio Emilia e responsabile della ricerca, e Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro. Un lunghissimo dossier in cui gli analisti hanno visionato 20mila commenti a video YouTube, 90gb di video su TikTok per un totale di oltre 11mila filmati virali e 2 milioni e mezzo di tweet.
Da questi contenuti è emersa la “conferma della capacità delle mafie di reinventarsi continuamente in base alle esigenze del presente. E di progredire, man mano che il digitale prende la scena facendo cadere i confini tra il reale e il virtuale”. Secondo quanto si legge nel rapporto “dopo una prima fase in cui la le mafie hanno usato i social network in modo quasi ludico anche nel mondo criminale subentra una maggiore consapevolezza del mezzo che diventa luogo di sponsorizzazione e comunicazione con gli affiliati così come con i nemici. Fino ad arrivare, con lo sbarco in Rete della nuova generazione criminale, alla creazione dell’interreale mafioso. Ovvero di una continuità tra quanto accade in rete e il mondo reale”.
Dati che non possono che preoccupare come spiega Gratteri che mette in risalto il fatto che lo Stato non è stato altrettanto pronto a innovarsi e ora si trova con le armi spuntate. “Mentre la politica discute di utilità o meno delle intercettazioni, le mafie sono già in grado di comprarsi degli hacker e crearsi nuovi sistemi di comunicazione sopra le nostre teste, che noi non ascoltiamo, comprano telefoni che utilizzano per sei mesi e parlano in chiaro da una parte all’altra dell’oceano e noi non siamo riusciti a bucare nessuno di questi sistemi” spiega il procuratore della Repubblica di Catanzaro durante il suo intervento alla Camera.
Con amarezza Gratteri spiega che “l’Italia non era seconda a nessuno” nel contrasto alle organizzazioni criminali “ma ora stiamo perdendo know how e negli ultimi decenni chi ha governato non ha investito in tecnologia pensando non fosse importante”.
Ma è tempo di invertire la rotta tanto che il magistrato simbolo dell’antimafia spiega che “dobbiamo coprire questo gap e finirla di arruolare nei servizi segreti solo il poliziotto, il maresciallo, dobbiamo assumere hacker altrimenti non riusciremo a essere competitivi con le migliori polizie del mondo”. Insomma Gratteri auspica un cambio di rotta ma avverte che non c’è tempo da perdere: “E’ un tema che va affrontato adesso, questo studio è l’attualità” perché “tra cinque anni può diventare archeologia”.