di Fausto Cirillo
Dovrebbero essere gli alfieri della massima trasparenza nella Pubblica amministrazione ma anche loro tengono famiglia. E quindi non si fanno alcun problema ad ‘aggirare’ in prima persona la legge che disciplina gli obblighi di pubblicazione delle informazioni concernenti i componenti degli organi di indirizzo politico. Protagonisti di questo italianissimo paradosso sono i tre componenti di Civit, l’Authority indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità dei pubblici uffici. Accade infatti che sul sito dell’organismo la presidente Romilda Rizzo e gli altri due componenti Antonio Martone e Alessandro Natalini comunichino all’unisono che i loro rispettivi coniugi e familiari entro il secondo grado non hanno concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle loro dichiarazioni reddituali e patrimoniali. Insomma, basta e avanza quanto dichiarato in prima persona dai tre solitari custodi della Civit. Nulla di irregolare, dal momento che l’eventualità di tale diniego è prevista dal primo comma dell’articolo 14 del decreto legislativo n. 33 dello scorso 14 marzo. Ma certo al cittadino resta in bocca il retrogusto amaro della beffa, dal momento che così viene eluso l’obiettivo di fornire a chiunque la massima trasparenza sulla consistenza del patrimonio (anche azionario) nelle effettive disponibilità dei nostri vertici politico-burocratici. A maggior ragione quando questi dirigono un’Authority chiamata a risplendere come un modello immacolato per tutte le altre pubbliche amministrazioni.
Commissari in fuga
D’altronde la vita di questo organismo sconosciuto ai più – la cui costituzione nel 2009 venne imposta dal Pd come costosa merce di scambio per concedere al governo Berlusconi il voto bipartisan sulla Riforma Brunetta della Pa – è stata segnata da qualche buona intenzione ma soprattutto da tantissime delusioni. Prova ne sia che, più della sua concreta capacità di incidere nel corpo vivo della burocrazia, ha fatto notizia soprattutto per gli abbandoni di diversi suoi commissari. Il primo a sbattere la porta, nel gennaio 2011, fu il giovane professore Pietro Micheli, fortissimamente sponsorizzato da Pietro Ichino: «La Civit – spiegò in una lettera a la Repubblica – non ha alcuna indipendenza dalla politica (né su come usare le risorse né su chi assumere né su che progetti portare avanti) e spesso entra in conflitto di competenze con altri attori pubblici come la Ragioneria Generale dello Stato e il ministero dell’Economia». Attaccò pure il presidente Antonio Martone e il commissario Filippo Patroni Griffi: «Non si possono affidare progetti manageriali a dei magistrati, non sono adatti per riformare la pubblica amministrazione». Il clamoroso j’accuse gli valse la reazione piccata degli ex colleghi ma almeno fece emergere il dissidio interno sul tipo di strategia da intraprendere. Nata con l’illusione che potesse essere il vigoroso pusher delle norme brunettiane, Civit si è infatti presto adattata al ruolo di burocratico gestore di una riforma morta per mancanza di risorse. Doveva essere l’allenatore che preparava le amministrazioni a performance eccellenti, si è ridotta a essere l’arbitro puntiglioso e molesto che ammonisce a raffica con circolari, direttive e delibere. Con le successive dimissioni di altri tre commissari (Luisa Torchia, Luciano Hinna e lo stesso Filippo Patroni Griffi), Antonio Martone è rimasto l’unico hilander del quintetto base. Dopo aver lasciato la presidenza a Romilda Rizzo (nota soprattutto per la sua stretta amicizia con la senatrice Pd Anna Finocchiaro) negli ultimi mesi si è mestamente accomodato accanto ad Alessandro Natalini.
L’arrivo di questi nuovi commissari non ha però segnato alcun cambio di passo dell’Authority. Tanto che il governo Letta ha recentemente affidato i suoi poteri più rilevanti all’Anvur, all’Aran e alla Funzione pubblica. Civit è diventata così un guscio quasi vuoto: le restano ormai solo i compiti in materia di trasparenza e anticorruzione (cambierà presto nome e componenti, essendo già divenuta l’Autorità nazionale anticorruzione). È scattato insomma il solito riflesso nazionale: invece di provare a far funzionare un organismo già esistente, obbligando i nominati ad un’attività più proficua, è stata approvata una legge che ristruttura la struttura, togliendole i compiti per cui era nata e affidandole incarichi del tutto nuovi. Con nuovi commissari e nuove speranze.