Nella calura estiva il dibattito si infiamma per i guai del governo con la giustizia a causa della tripletta di inchieste ad indagati che, direttamente o indirettamente, sono rappresentativi del governo: Andrea Delmastro (sottosegretario alla giustizia), Daniela Santanchè (Ministro del Turismo), Leonardo Apache La Russa (figlio della seconda carica dello Stato). I capi di imputazione sono molto diversi tra loro e, nel caso del figlio di Ignazio La Russa, stiamo parlando di un ragazzo che certamente non ha oneri governativi, ma su cui ricadono gli atti paterni che invece rappresenta un’istituzione che segue solo la Presidenza della Repubblica in ordine di importanza.
Meloni senza parole
Premesso che i processi non devono essere fatti dalla e sulla stampa e tenendo fermo il diritto di cronaca di quest’ultima, è evidente che una presa di posizione della Meloni – non di certo entrando nel merito delle inchieste – sia necessaria in un momento in cui il suo silenzio sta diventando assordante. Il garantismo di cui si erge a paladina, dimenticando il tratto forcaiolo di quando sedeva tra i banchi dell’opposizione e gli indagati non rientravano nella cerchia dei suoi sodali, prevederebbe che lei manifestasse fiducia nella magistratura che sta svolgendo il suo lavoro trattando un politico esattamente come tratterebbe un qualsiasi altro cittadino.
“La legge è uguale per tutti” non è una frase da rispolverare nei talk all’occorrenza, ma la base fondativa di qualsiasi sistema giudiziario che affondi le proprie radici nel principio di eguaglianza, presupposto di una democrazia sana e non corrotta. Invece, convenienza vuole che ci si costruisca il nemico di turno così da poter interpretare in commedia il ruolo del perseguitato e, da potenziale reo, diventare immediatamente vittima. Questo rovesciamento dei punti di vista comporta immediatamente l’inasprimento dei toni e un ring tra magistratura e politica che in una cultura legalitaria non dovrebbe esserci.
Laddove ci sono storture da correggere o riforme da apportare, la collaborazione tra governo e Anm dovrebbe esserne alla base. Ascoltare e coinvolgere i magistrati non vuol dire essere a loro assoggettati, ma accogliere dei pareri fondati su esperienza e competenze di natura tecnica e non di certo su una delegittimazione continua del lavoro che svolgono. Certamente parliamo dell’amministrazione della giustizia terrena e nessuno ha il diritto di muoversi come se fosse diretto interprete della giustizia divina, ammesso ve ne sia una, così come i casi di vite di innocenti rovinate da processi ingiusti ci mettono all’erta rispetto ai rischi di una vita stravolta senza avere alcuna colpa, senza aver commesso alcun reato.
Lavorare affinché i processi siano giusti – cosa che non vogliono solo i politici chiamati a difendersi nelle aule dei tribunali, ma che ardentemente desideriamo noi cittadini tutti – non può equivalere alla demonizzazione generalizzata della magistratura.
Le parole incaute di La Russa e quelle mancanti della premier
Allora, anziché richiamarsi agli attacchi a orologeria la Meloni ci dica da Presidente del Consiglio di avere fiducia nella giustizia e nella magistratura e spenda due parole sulla “vittimizzazione secondaria” messa in atto da Ignazio La Russa. Certo, subito dopo aver profferito le incaute parole, il Presidente del Senato ha provato a riparare al danno spiegandoci cosa intendesse ma suonano deboli le giustificazioni se la prima donna Presidente del Consiglio nella storia d’Italia – che della violenza sulle donne si è pure occupata – non dice nulla a riguardo.
Non vogliamo che prenda le parti della ragazza (presunta vittima) a danno del ragazzo (presunto innocente), ma che ci dica quanto sia importante denunciare sempre – anche a distanza di anni – quando si pensa di aver subito una violenza e quanto lo stato di inferiorità determinato dall’uso di sostanze stupefacenti non sia una attenuante per il colpevole, ma una aggravante.
L’opposizione non può e non deve sostituirsi alla giustizia trattando per giunta gli indagati da colpevoli, ma il governo deve smetterla di nascondersi dietro lo scudo degli “attacchi a orologeria” e capire che esiste una questione di opportunità che prevede un passo a lato degli indagati quando su di loro gravano ombre tanto pesanti con la giustizia. Nella storia italiana numerosi i casi di coloro che, per molto meno, hanno rassegnato le dimissioni così da non scalfire la credibilità propria e del governo che rappresentavano. Certo è che, se ciò accadesse anche con il governo Meloni, tra i banchi del governo correremmo il rischio di non trovarci quasi più nessuno.