“Non bisogna organizzare i propri piani in base a ciò che il nemico potrebbe fare, ma alla propria preparazione”, scriveva nel V secolo avanti Cristo il generale Sun Tzu nel suo celebre trattato di strategia militare. Perché la guerra è un’arte ma lo è anche la politica. E va da sé che la preparazione però la si debba avere, insieme ad una giusta dose di coerenza, lucidità e capacità di connettersi con le base sociale con la quale ci si confronta. Tutte caratteristiche che Matteo Salvini da mesi sembra aver smarrito per strada.
Soprattutto l’autorevolezza del leader che è in grado di trascinare e fare in modo che i propri obiettivi diventino condivisi: ebbene il Capitano ha fallito anche il suo ultimo tentativo di sparigliare le carte, di lanciare l’idea vincente, di contrastare efficacemente il competitor politico. La piazza invocata sui social domenica sera dopo la conferenza stampa di Conte, con cui veniva annunciata la Fase2 si è tramutata nell’ennesimo flop comunicativo. Houston, abbiamo un problema. Di comunicazione certo (la Bestiolina è sempre più fiacca) ma soprattutto di “connessione” col comune sentire di cui, va detto, fino a qualche mese fa Matteo era maestro. Ma O fortuna velut luna statu variabilis, la fortuna come la luna è variabile nel suo stato e se essa non è accompagnata dalla sostanza ben presto, come la luna, si eclissa. E rimangono macerie.
Perché un conto è una connessione coi bisogni del popolo che si tramuta in proposta e azione, un conto è esaltare in modo demagogico gli istinti del popolo. Un’arma subdola per ottenere facili consensi. E stavolta a smarcarsi non è solo Silvio Berlusconi – che da giorni ha intrapreso tutt’altra strada rispetto ai due alleati della coalizione di centrodestra, vedi sul Mes – ma anche Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia è “pop” nel senso di popolare non populista, e la sua solida base politica fa in modo che rifugga da facili scorciatoie, da slogan vuoti e da retorica priva di pragmatica. Invocare la piazza in un momento come questo non è né realistico e né funzionale: ci vogliono soluzioni concrete non chiamate alle armi.
Non che Meloni risparmi critiche all’esecutivo, dalle misure economiche giudicate “assolutamente insufficienti” al modus operandi del premier: “Noi le proposte le facciamo, ma non c’è un luogo dove parlare come il Parlamento. Conte decide da solo”, attacca da giorni. Però parla di proposte, non incita ad andare in piazza e mettere così in pericolo chi partecipa alla protesta: “L’opposizione sarebbe accusata di alimentare l’epidemia”. Ma di queste boutade (pericolose, peraltro) non ne hanno le tasche piene solo gli alleati. Anche dentro la Lega stessa tutta l’area che in un ideale filo conduttore va da Giancarlo Giorgetti a Luca Zaia è decisamente perplessa – per usare un eufemismo – dello smarrimento del capo: nel partito c‘è un fronte silenzioso (eppur si muove…) che vorrebbe una Lega più pragmatica, meno salvinocentrica e possibilmente con meno “cavalli di Caligola”.
Che i miracolati ad un certo punto stancano e indispongono, finché tutto va bene una quota può essere pure tollerata, ma con elezioni perse alle spalle (vedi Emilia Romagna su cui il Capitano aveva puntano non una ma mille fiches), sondaggi in picchiata e comunicazione allo sbando, non è più accettabile manco quella.