Sembra incredibile ma mentre tutto il mondo si è fermato e ha guardato alla manifestazione romana contro la guerra in Ucraina, chi ha preferito girarsi dall’altra parte è proprio il governo italiano.
Dubbi sugli aiuti militari a Kiev pure in maggioranza. La Meloni, come Draghi, però non molla l’elmetto
Già perché il corteo ha marciato per chiedere la pace, con oltre 100mila persone e senza bandiere di partito, l’Esecutivo di Giorgia Meloni ha detto chiaro e tondo che si continuerà sulla linea bellicista tanto che il sesto decreto per l’invio di armi a Kiev appare come una formalità e che non c’è la benché minima intenzione di farsi promotore in Europa, come chiesto dalla piazza, di iniziative per cercare di riportare Russia e Ucraina al tavolo delle trattative.
Eppure sarebbe opportuna più moderazione davanti a una manifestazione che, contro tutto e tutti, è riuscita a mettere in piazza un numero esorbitante di persone. Qualcuno, infatti, potrebbe pensare che tutto sommato 100mila manifestanti siano pochi, ma non è questo il caso. Del resto essere ‘pacifisti’ è diventato un mestiere piuttosto complicato in quest’epoca storica dove si tende a ridurre tutto all’eterno dualismo tra bene e male.
Ma a rendere ancor più complicato il portare in piazza gli italiani ci si è messa anche l’incredibile divisione interna alle opposizioni, con Carlo Calenda che ha pensato bene di creare una contromanifestazione a Milano che ha confuso molti. Senza dimenticare le titubanze del Partito democratico che si è spaccato con i big di base riformista che hanno preferito sfilare al fianco di Azione e Italia Viva, e il resto dei dem che o ha preferito restare a casa oppure è sceso in piazza a Roma come da indicazioni del segretario Enrico Letta.
Ma a rendere miracoloso il risultato ottenuto dalla manifestazione, sostenuta da oltre 500 sigle e promossa dai Cinque Stelle di Giuseppe Conte, c’è soprattutto l’essere riusciti a far dimenticare agli italiani oltre otto mesi di criminalizzazione – sui media mainstream – del movimento pacifista.
Il risultato, come noto, è stato un evento che è andato ben oltre ogni più rosea previsione e in cui, secondo il rappresentante del Consiglio Nazionale M5S e vicepresidente dell’Assemblea capitolina Paolo Ferrara, “la gente ha riconosciuto subito chi veramente sostiene un cambiamento della società e chi vuole innovare” aggiungendo poi che “comprare armi significa più guerra e meno campo sociale, ma soprattutto una economia a favore dei più forti”.
Ma tutto ciò evidentemente non ha convinto il Governo che ha fatto spallucce, preferendo continuare a seguire la linea tracciata da Mario Draghi e da Ursula von der Leyen. Insomma con il cambio a Palazzo Chigi, la politica estera dell’Italia è rimasta ferma al palo e nulla fa pensare che qualcosa potrà cambiare in tempi brevi. A lasciarlo intendere sono proprio i passi dell’Esecutivo della Meloni che in queste ore è al lavoro per un sesto decreto interministeriale – dopo i cinque del governo dei migliori – con cui verranno destinati altri mezzi militari all’Ucraina.
Un atto che, secondo quanto trapela, potrebbe non approdare in Parlamento per evitare conflitti e spaccature. Ma questo passaggio dovrebbe essere necessario oggi più che mai perché questo non è più un governo di unità nazionale e, soprattutto, perché centomila persone hanno chiesto in mondovisione di fermare l’invio di armi per riaprire immediatamente i tavoli diplomatici con cui chiudere le ostilità.
A spiegare in modo chiaro cosa non stia funzionando è il senatore pentastellato Ettore Licheri convinto che “le strade che portano alla pace esistono sempre. Sta a noi scovarle e quindi percorrerle”. Lo stesso ribadisce anche “che cercare la pace non significa dimenticare che c’è un aggressore e un aggredito. Significa portare le ragioni nelle sedi internazionali e sottrarle da campi di battaglia dove vale la legge del più forte”. Peccato che, come rileva lo stesso senatore M5S, “la pace è una conquista, il frutto maturo di un complesso lavoro che purtroppo non vediamo”.