di Marco Castoro
Italiani, fiamminghi, francesi. E sulle salite anche qualche spagnolo. Il ciclismo per decenni ha avuto degli stereotipi ben determinati. Poi è comparso sulla scena un alieno, Lance Armstrong, il texano imbattibile che vinse sette Tour de France. Di quanto fosse potente questo campione è spiegato nell’aneddoto raccontato dalla giornalista americana Juliet Macur nell’incipit del libro inchiesta The fall. “Il grande albero di quercia che dominava l’esterno della sua villa ad Austin fu fatto spostare di pochi metri, solo per farlo apparire al centro della tenuta. Il costo? Duecentomila dollari”. Episodio emblematico per far capire quanto fosse diventato ricco Armstrong. La Macur scrive pure che la vita di Lance è fatta di bugie e menzogne, fin dall’infanzia. Crebbe in un clima di competizione e ribellione verso la vita. Un carattere ribelle e irascibile. Con un unico obiettivo: vincere a qualunque costo. Al punto di fare uso di sostanze dopanti che l’hanno cancellato dalla storia del ciclismo.
Il doping ha bucato le due ruote
Il vero male assoluto, il demone che ha cancellato l’epopea e il fascino delle corse ciclistiche è senza dubbio il doping. Anzi la lotta al doping. Perché le bombe i ciclisti l’hanno sempre prese. A cominciare da Coppi. Altrimenti non si poteva reggere certi ritmi per ore, in salite che avrebbero stroncato qualsiasi essere umano. Ma alla gente poco importava quello che prendevano. Fondamentale era l’impresa. Il testa a testa sul Pordoi, sullo Stelvio o sul Puy-de-Dome non aveva prezzo. Prendetevi qualsiasi bombone pur di fare il gallo da combattimento sui pedali. Vedere lo scatto di Van Impe, di Fuente o di Pantani sul tornante era qualcosa di unico. Di affascinante. Come vedere la pedalata costante dei passisti non scalatori che tenendo sempre la stessa andatura cercavano di limitare i danni. Hinault, Mercks, Gimondi, Bugno, Bitossi. Poi c’erano le volate di Marino Basso, Roger De Vlaeminck, Beppe Saronni, fino alle ultime di Mario Cipollini. Mentre nelle corse a cronometro Francesco Moser non aveva rivali. La guerra al doping ha cancellato tutte queste emozioni. I blitz notturni, gli esami del sangue, i controlli a tappeto. Le squalifiche. Le classifiche sconvolte e rifatte cancellando i big trovati colpevoli hanno dato il colpo finale al ciclismo e alla sua epopea. Lo sport ha perso di credibilità e i comprimari si sono guadagnati la ribalta per grazia ricevuta. Inoltre la globalizzazione ha finito per spazzare via anche i vecchi stereotipi. E ora – a pensarci su è davvero paradossale – sono i colombiani che si spartiscono la gloria nell’era del doping. Lo fanno senza scomodare i narcotrafficanti.
Il Giro non ha
più appeal
Coppi e Bartali. Anquetil. Mercks e Gimondi. Moser e Saronni. Motta e Taccone. Indurain, Chiappucci e Bugno. Pantani. Che miti. E oggi chi abbiamo? Siamo arrivati al punto di rimpiangere l’assenza di Nibali che almeno era un nome spendibile. E non i colombiani Quintana, Uran o il canadese Hesjedal. A rappresentare gli italiani c’è il sardo Fabio Aru. Che per carità tanto di cappello, ma per favore non lo accostiamo ai campioni! Sarebbe una vera pressa in Giro!
Ascolti in calo
Nazionale di calcio, Ferrari e Giro d’Italia. La Rai conosce bene i gusti sportivi degli italiani. E anche in tempi di spending review rigorosa sa che può tagliare tutto meno le tre voci. Per quanto riguarda il Giro Viale Mazzini continua a spendere cifre a sei zeri.
E da un po’ di tempo a questa parte il ritorno dovuto agli ascolti segna il passo. Tra diritti e costi di produzione ogni anno la Rai spende circa 7 milioni di euro, di cui due terzi per i diritti. E meno male che la Gazzetta ha spacchettato i diritti per le gare all’estero, così Viale Mazzini ha potuto risparmiare qualcosa. Certo, alla Gazzetta conviene sconfinare in Europa per avere più seguito di pubblico. Ma alla Rai la trovata fa lievitare i costi di produzione. Trasmettere in diretta ore di corsa non è impresa facile. Servono postazioni fisse e mobili. Moto, camere ed elicottero ponte. Oltre a registi, tecnici e telecronisti. Le spese di produzione possono toccare anche i 3 milioni di euro.
Gli ascolti di questi ultimi anni non sono paragonabili a quelli degli anni d’oro. Nelle tappe del week end e in quelle di montagna – tradizionalmente le più viste – si raggiungono in media cifre intorno al milione di telespettatori all’arrivo. Un milione e mezzo nelle giornate migliori. Per uno share medio che oscilla tra l’8 e il 10%. Il 12-15% all’arrivo delle tappe più importanti. Un tracollo, se si considera che le tappe con Pantani sfioravano i 3 milioni per uno share medio del 27%. Ma il Pirata era davvero unico.