di Gaetano Pedullà
Il colore della pelle non c’entra. E lo sfogo di Mario Balotelli è un altro gol mancato. Davvero troppo per un attaccante a secco di reti sul campo e fuori. Il ragazzo di colore che ci fa la lezione, raccontandoci che gli africani non scaricherebbero mai un fratello (ma ha letto qualche libro, oltre le fiabe etniche?) svela tutta la debolezza caratteriale di un atleta appiccicato troppo presto nell’album dei campioni. Dire che gli africani sono migliori degli italiani è un pensiero più debole dei suoi tiri in porta. E d’altra parte ci vuole più forza nel fare autocritica, più saggezza nel resistere alle provocazioni, più maturità nel guardare avanti che nel gettare sale sulla carne ferita di un Paese che per il calcio ci vive. E ci muore. Così le parole di un ventitreenne diventano l’argomento del giorno su internet, nei giornali e nei bar. Siamo razzisti a nostra insaputa? Così malati di pallonite da non distinguere chi ha giocato da chi ha sbagliato le partite? Balotelli a modo suo prova a inchiodarci a queste domande, ben sapendo che mentre ci riflettiamo sopra lui se ne andrà in vacanza e a godersi i guadagni milionari che la sorte – e un calcio folle – gli hanno regalato. Poi si tornerà a giocare. E la regola sarà la stessa: far parlare di sé con i gol o anche senza. Nell’encefalogramma piatto di chi va a uno stadio con mazze e coltelli, non servono ragionamenti raffinati per fare breccia. Il guaio è che poi c’è chi finisce come l’ultrà del Napoli morto ieri a Roma, con lo strascico della faida tra tifoserie. Ecco cosa manca a Balotelli e agli scalmanati delle curve: riconoscere che i veri campioni prima di esserlo sul campo lo sono fuori.