Il Labour è uscito sconfitto dalle elezioni in Gran Bretagna, eppure gongola come se avesse vinto. Una soddisfazione motivata dal percorso di risalita seguito: nel 2015 il partito era allo sfascio e la nomina di Jeremy Corbyn alla leadership era vista come un errore. Invece, sfidando i sondaggi pessimi dei mesi scorsi, il numero uno laburista si è rimesso in marcia, conquistando la fiducia dell’elettorato più giovane. Alla fine ha ottenuto 261 seggi con un 40% di voti su scala nazionale, ponendo le base per un ritorno al Governo alla prossima tornata. La ricetta magica? I vecchi slogan della sinistra socialista: lavoro e welfare, con una particolare attenzione alla lotta alle diseguaglianze. Rispetto alla tradizione laburista è cambiato il prototipo dell’elettorato di riferimento: non è più il minatore o il pensionato della classe media. Sono le nuove generazioni che cercano qualche sicurezza in più.
Ma come è possibile che laddove tutti i leader di sinistra falliscono in Europa, Corbyn fa lievitare i consensi con questa semplicità? Uno degli ingredienti è la credibilità: è stato eletto in Parlamento nel 1983 per la prima volta, assistendo al rovesciamento delle posizioni del suo partito, soprattutto nell’era di Tony Blair. Eppure, dalla sua nicchia di minoranza, è rimasto fedele a se stesso, combattendo le battaglie politiche dall’interno del Labour. Fino ad arrivare all’inattesa scalata ai vertici: nel 2015 nessuno immaginava che potesse vincere le primarie. E questo è un messaggio fondamentale per i tanti presunti emuli italiani di Corbyn: oltre alle parole d’ordine serve un curriculum coerente. Altrimenti si corre il rischio di andare incontro a una figuraccia.