La Lega va a congresso. Chiamarlo congresso però sembra davvero un’esagerazione. Dopo anni di rinvii e giochi di potere, il 5 e 6 aprile si terrà un’assemblea che somiglia più a una liturgia di autoconservazione che a un vero momento di confronto. Il tema vero al centro del confronto è la sopravvivenza di un leader usurato, solo quello. Matteo Salvini, unico vero candidato, si appresta a blindare la sua leadership senza correre rischi. Il dibattito? Ridotto al minimo, quasi un esercizio di forma.
Nel frattempo, le tensioni interne montano. I governatori del Nord, da Fedriga a Zaia, hanno passato anni a mugugnare senza mai costruire un’alternativa concreta. La spaccatura è evidente: la Lega delle Regioni si logora – insieme al suo capo – incapace di liberarsi della sua ombra. E in Lombardia si combatte una guerra fratricida: il cerchio magico salviniano sabota Romeo, segretario regionale inviso a Via Bellerio. Non a caso, si vocifera di un rimpiazzo con Borghi o Marti, più fedeli alla linea del capo.
Intanto Salvini gioca di sponda con lo staff comunicazione, moltiplicando gli slogan mentre il partito si svuota. Il tesseramento frena, la base scricchiola, ma la parola d’ordine resta la stessa: restare aggrappati alla leadership, ad ogni costo. Così un partito nato per scompaginare la politica sembra scivolare verso la parodia di se stesso, inchiodato a un leader che non può permettersi di perdere. Mentre Meloni sta a guardare compiaciuta di come gli alleati si condannino all’irrilevanza. Il congresso sarà solo un’altra prova di fedeltà al capo anche se il capo conta sempre meno. Il resto è folklore.