Salvini indagato per cinque reati cercati col lanternino, la Lega condannata a smantellare il partito per i 49 milioni dello Stato spesi indebitamente dall’allora tesoriere Belsito. Senza voler evocare il complotto o le solite ruggini tra politica e magistratura, non c’è dubbio che qui c’è un problema per la democrazia. Che piaccia o no, il Carroccio è oggi uno dei maggiori riferimenti politici nel Paese, e metterlo nelle condizioni di non poter rappresentare i suoi elettori realizzerebbe gli incubi appena evocati da Walter Veltroni, ma in modo diametralmente opposto a come ce li rappresenta l’ex leader del Pd. Invece di quella fantomatica e fantasiosa deriva autoritaria attribuita alle intenzioni di leghisti e Cinque Stelle, a interrompere una corretta rappresentanza democratica nelle istituzioni sarebbero i giudici. A far capire che un tale scenario non è del tutto impossibile è stato ieri il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti.
Il 5 settembre, quando potrà arrivare la sentenza del tribunale del Riesame di Genova, la Lega rischia di non avere più scappatoie rispetto al sequestro di tutti i propri conti correnti, come disposto da una condanna non definitiva per truffa ai danni dello Stato. Di conseguenza il partito dovrebbe subito licenziare i dipendenti e chiudere le sedi locali, bloccando in gran parte la propria attività politica. Rispondendo al direttore de ilfattoquotidiano.it, Giorgetti ha quindi ammesso: la magistratura può avere conseguenze definitive sulla Lega, come la chiusura del partito, senza peraltro che il processo sulla somma contesa sia già finito. Il Carroccio non potrebbe più esistere e se poi chissà quando arrivasse dalla Cassazione una sentenza finale di assoluzione, questa servirebbe a ben poco. Dunque un partito – ma qui bisogna dire ancora di più, la stessa democrazia – è appeso al giudizio di un tribunale. Giudizio che non può tenere conto di un fatto: se è chiaro che un soggetto politico, come tutti, deve pagare i suoi debiti, a cominciare da quelli con lo Stato, qui si è in presenza di fondi pubblici erogati per svolgere un’attività politica, all’interno di quella libertà specificatamente tutelata dalla Costituzione. Un fine che non può essere ignorato. Insomma, il principio di far restituire da Matteo Salvini i soldi spesi da Umberto Bossi (o chi per lui) è soccombente di fronte alla finalità con cui sono stati dati legittimamente e si daranno in futuro altri fondi pubblici proprio a Salvini per consentire a milioni di italiani di essere rappresentati. La legge ne uscirà sconfitta? Niente affatto, perché il principio che più conta – cioè la libertà d’associazione e di espressione politica – sarà salvo. Un principio che va preservato anche nel caso di altre azioni discutibili della magistratura.
Il sospetto – Se Salvini appunta al suo petto ogni ipotesi di reato discendente dalla vicenda Diciotti, in milioni di italiani si è naturalmente accesa la lampadina di un’iniziativa “politica” della Procura. Persino nella base dei Cinque Stelle, tradizionalmente legalitaria e pronta a scatenarsi per ogni provvedimento delle Procure, oggi fioccano i distinguo tra le ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione e quello che appare un evidente esercizio dell’attività politica, peraltro in piena coerenza con il mandato elettorale di alzare il livello della trattativa tra Italia ed Europa sull’accoglienza dei migranti. Indagando Salvini, insomma, la magistratura rischia un pericoloso autogol, perché se si arrivasse mai alla condanna del ministro questa sarà additata come la prova di un’ingerenza del potere giudiziario su quello esecutivo, mentre se finirà tutto a tarallucci e vino, resterà la figuraccia e la sensazione che tra i nostri pm non c’è sempre un sereno metro di giudizio. Un corto circuito tra poteri dello Stato che non promette bene per qualunque democrazia.