La guerra a Gaza è un flop e mette a rischio Israele. Appello dell’ex premier Barak e dell’ex capo del Mossad Pardo per bloccare l’intervento di Bibi al Congresso USA

La guerra a Gaza mette a rischio Israele. L'ex premier Barak e l'ex capo del Mossad chiedono di fermare l'intervento di Bibi al Congresso USA

La guerra a Gaza è un flop e mette a rischio Israele. Appello dell’ex premier Barak e dell’ex capo del Mossad Pardo per bloccare l’intervento di Bibi al Congresso USA

Davanti alla brutale guerra nella Striscia di Gaza, che sta isolando sempre più Israele dalla comunità internazionale, ora a reagire è la società civile dello Stato ebraico. Con un durissimo editoriale pubblicato sul New York Times, firmato dal presidente dell’Accademia israeliana delle scienze e degli studi umanistici, David Harel, dall’ex capo del Mossad, Tamir Pardo, dall’ex procuratore di stato israeliano, Talia Sasson, dall’ex premier Ehud Barak, dal premio Nobel Aaron Ciechanover e dallo scrittore David Grossman, gli stessi hanno chiesto ufficialmente al Congresso degli Stati Uniti di ritirare l’invito al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a tenere un intervento in Aula.

Una richiesta che motivano spiegando che Bibi sta portando Israele “verso il declino a una velocità allarmante, al punto che potremmo alla fine perdere il Paese che amiamo”. Secondo loro, “il Congresso americano ha commesso un terribile errore” perché “la presenza del signor Netanyahu a Washington non rappresenterà lo Stato di Israele e i suoi cittadini”, ma finirà solamente per “ricompensare ed elogiare la sua condotta scandalosa e distruttiva nei confronti del nostro Paese”.

La guerra a Gaza è un flop e mette a rischio Israele. Appello dell’ex premier Barak e dell’ex capo del Mossad, Pardo, per bloccare l’intervento di Bibi al Congresso USA

Difficile dar loro torto perché è evidente che il leader di Tel Aviv stia scontentando gran parte dei suoi stessi connazionali che, ormai da settimane, ne contestano l’operato riempiendo le piazze e paralizzando strade e autostrade. Del resto, la guerra a Gaza ha causato una mattanza di civili palestinesi, con il risultato che appare difficile sperare in un futuro di pace tra i due popoli, e non è nemmeno bastata per riportare a casa gli oltre 120 ostaggi – molti dei quali già deceduti sotto le bombe israeliane – ancora in mano ad Hamas.

L’organizzazione terroristica, a dispetto dei proclami di Netanyahu, non è stata ancora sconfitta e non si sa se verrà mai definitivamente debellata, al punto che in tanti in Israele parlano di una guerra fallimentare.

IL FRONTE CALDO

Come se non bastasse, di giorno in giorno aumentano i rischi di un’escalation in Libano per mettere fine alla minaccia dei miliziani filo-iraniani di Hezbollah, con cui va avanti, ormai da mesi, un fitto scambio di artiglieria. Anzi, appare ormai scontato che presto si aprirà anche questo ennesimo fronte di scontro, visto che lo stesso Netanyahu ha già detto che mentre diminuiranno le operazioni a Rafah e Gaza, aumenteranno quelle in Libano.

Proprio in vista di questo più che probabile allargamento del conflitto mediorientale, che gli Stati Uniti di Joe Biden stanno provando a disinnescare senza alcun esito, ad alzare la voce sono i vari componenti di quella che viene definita “l’asse del male” guidato dall’Iran di Ali Khamenei. In particolare, gli Houthi, che hanno già detto che intensificheranno gli attacchi, e la Resistenza islamica in Iraq, ossia un gruppo di forze irachene filo-iraniane, che si appresta a combattere. Come dichiarato da Qais al Khazali, leader della milizia Asa’ib Ahl Al Haq, “se gli Stati Uniti continueranno a sostenere lo Stato ebraico”, per giunta appoggiando “l’attacco in Libano”, “renderanno un bersaglio tutti i loro interessi nella regione”.

Propositi di guerra che stanno preoccupando Teheran che, secondo il quotidiano saudita Asharq al-Awsat, avrebbe “espresso riserve sui piani delle milizie irachene di appoggiare Hezbollah se dovesse scoppiare una guerra con Israele in Libano”. Proprio per questo l’Iran, impegnato questo weekend nella difficile elezione del nuovo presidente che dovrà sostituire Ebrahim Raisi, morto in un incidente aereo, starebbe valutando i piani delle milizie irachene, ma non li avrebbe ancora approvati per il timore che la situazione possa rapidamente sfuggire di mano.