di Mimmo Mastrangelo
A Carlo Maria Martini piaceva ricordare un proverbio indiano che “narra di quattro stadi della vita dell’uomo. Il primo è lo stadio in cui si impara, il secondo è quello in cui si insegna o si servono gli altri; nel terzo si va nel bosco, il bosco profondo del silenzio, della riflessione, del ripensamento. Nel bosco, passeggiando tra gli alberi, si rimettono in ordine le memorie. Nel quarto stadio si impara a mendicare”. E, appunto, “Il bosco e il mendicante” è il sottotitolo che lo scrittore e giornalista Enrico Impalà ha scelto per “Vita del Cardinal Martini” (San Paolo Edizioni), una biografia sul percorso umano e spirituale del presule di cui ricorre il 31 agosto il primo anniversario della scomparsa. Certo, nel volume non c’è molto del Martini che scosse i palazzi del Vaticano, mise allo scoperto le inadempienze della Chiesa e del clero nell’ultimo secolo. Non è così marcata la pietra che, nell’ ultima intervista rilasciata, scagliò contro una “Chiesa stanca e rimasta dietro di duecento anni” a fronte del cammino e delle evoluzioni della storia. E tuttavia, il lavoro di Impalà è scrupoloso nel mettere insieme documenti, riflessioni personali, dati ed agganciarli al tragitto dell’uomo, del cardinale, del gesuita, del biblista che ha esercitato il suo apostolato tra Roma, Milano e Gerusalemme. Quest’ultima ritenuta “la città simbolo di tutto l’umano, e nella quale, se ci sarà pace, si farà pace ovunque”, che Martini scelse per chiudere il suo cammino di pellegrino, per dedicarsi ad un esercizio più intenso della preghiera ed a uno studio più profondo della Parola. Del cardinale, nato a Torino nel 1927, sono tracciati – in particolare – i ventitre anni alla guida della curia milanese in cui cercò di divulgare quella sua idea di Chiesa “magistra” (oltre che “mater”) che sa mettere il seggio episcopale a disposizione di chiunque, di chi ha una fede religiosa e di chi non ce l’ha . Da qui il rapporto coi musulmani, l’incontro con le altre religioni, l’apertura al mondo laico, per scongiurare che i cattolici ripiegassero su se stessi, per spingerli ad essere più sensibili ed attenti a cogliere la complessità della vita. Martini è stato progressista, democratico, uomo di pace, antiproibizionista, per questo in quel ramo della Chiesa più conservatrice non era sempre ben visto, ma le critiche non lo impressionavano, né lo condizionavano. La sua visione di Vangelo rimaneva salda, tutto il suo discorso ecclesiale si ponderava a farsi testimonianza, a cercare sempre il prossimo. Un giusto è stato il vescovo emerito di Milano che non mancava occasione di incitare a credere nell’uomo, nel non abbandonare chi fosse stato recidivo nell’errore. Esortava Martini “a ritrovare ogni giorno le motivazioni dinamiche per convincerci che comunque l’uomo vale, può essere curato e, anche, se è colpevole, resta sempre soggetto primario della società”. Il volume di Impalà è un bauletto di parole, argomenti, riflessioni, in cui è conservato un senso semplice eppure alto del concetto di fede e credente. Martini anche durante gli anni difficili della malattia (morbo di Parkinson) è rimasto l’umile pellegrino con la bisaccia, il mendicante che ha sollecitato ad aprire le braccia ed accogliere, ha spronato ad “ascoltare senza pregiudizi gli argomenti di ciascuno”, a non tradire Cristo. Dunque, a non abbandonare l’uomo.