di Clemente Pistilli
Mentre tanti imprenditori dalla fedina penale immacolata faticano a ottenere qualche finanziamento per cercare di andare avanti, sembra che con una semplice autocertificazione un boss mafioso riesca a ottenere senza problemi fondi dal Ministero per le politiche agricole e forestali. Questo quanto emerge dalla sentenza con cui 4 giorni fa la Corte dei Conti ha condannato Domenico Arena, 59 anni, di Rosarno, esponente della cosca Pesce, uno dei più potenti clan di ‘ndrangheta, a risarcire al Mipaf i contributi che aveva ottenuto per la sua azienda agricola.
Il caso
Domenico Arena, per gli anni 2006, 2008 e 2009, ha ottenuto dal Ministero contributi comunitari per il settore seminativi e ortofrutta trasformata, per un totale di quasi 62mila euro. Ha presentato una domanda e lo Stato ha allentato i cordoni della borsa. Nel 2010, nel corso di alcuni accertamenti, la Guardia di finanza ha notato però che Arena era stato condannato per reati gravi, che impediscono poi di ottenere contributi da parte di enti pubblici per svolgere attività imprenditoriale. L’uomo risultava condannato per delitti in materia di armi, associazione per delinquere di stampo mafioso e altro. Le Fiamme gialle hanno verificato inoltre che Arena era destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, provvedimenti che vengono emessi nei confronti di soggetti pericolosi per l’ordine pubblico. Avendo ormai il Ministero concesso il denaro al 59enne, la Guardia di finanza ha segnalato il caso alla Corte dei Conti, per l’eventuale recupero delle somme. Gli inquirenti contabili hanno citato a giudizio Arena e chiesto che venisse condannato a risarcire oltre 123mila euro, la metà per il contributo ottenuto e l’altra metà come sanzione.
I giudici contabili calabresi hanno emesso una condanna per il risarcimento dei quasi 62mila euro e precisato che l’eventuale sanzione non possono disporla loro, ma eventualmente il Mipaf.
Il personaggio
Domenico Arena, già sorvegliato speciale e già condannato per mafia, è ritenuto dagli inquirenti un elemento di spicco della cosca Pesce, che detta legge a Rosarno, oltre a controllare, insieme ai Piromalli, ai Mancuso e ai Molè, i traffici nella Piana di Gioia Tauro, con affari anche a Milano e contatti con la criminalità organizzata estera. Arena, dopo un lungo periodo di latitanza, è stato arrestato nel luglio scorso dai carabinieri nel quartiere Lido di Catanzaro, dove si nascondeva in un lussuoso appartamento. Cognato di Vincenzo Pesce, il 59enne, secondo l’Antimafia, ha fatto carriera, ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione del business degli autotrasporti, ed è stato nuovamente condannato il 20 settembre 2011 a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, poi ridotti a otto nel febbraio scorso in appello. Un processo scaturito dalle indagini “All Inside”, che hanno portato gli inquirenti a bloccare ai Pesce beni per milioni di euro e a penetrare nei segreti della cosca, grazie alle dichiarazioni della pentita Giuseppina Pesce. Proprio per i contributi ottenuti nel settore agricolo, nel gennaio scorso la Guardia di finanza ha poi sequestrato, su ordine del Tribunale reggino, l’azienda degli Arena.
I precedenti
Finanziamenti con una semplice autocertificazione, non li avrebbe inoltre ottenuti dal Ministero e dall’Agea solo Domenico Arena. Altri condannati per mafia o sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, senza tante difficoltà, negli anni hanno beneficiato di contributi statali ed europei per le loro aziende agricole in Calabria. Nel 2013 la Corte dei Conti calabrese ha infatti condannato a risarcire lo Stato Armando Ferrazzo, 36 anni, Luigi Zungrone, 60 anni, Gesuele Mosè Vecchio, 49 anni, Domenico Saverini, 43 anni, Domenico Bonavera, 82 anni, e Antonino Rechichi, 52 anni, meno noti di Arena ma che ugualmente non potevano percepire contributi.