Ancora una volta l’Europa smentisce l’Italia. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla coltivazione della canapa ha messo in luce un divario sempre più ampio tra le visioni progressiste di Bruxelles e l’approccio restrittivo del Belpaese.
L’Europa apre, l’Italia chiude: il paradosso della canapa
La Corte di Lussemburgo ha decretato che gli Stati membri non possono vietare la coltivazione della canapa in sistemi idroponici in ambienti chiusi, a patto che il contenuto di THC non superi lo 0,2%. Una decisione che suona come una fanfara per gli agricoltori europei ma che in Italia riecheggia come un campanello d’allarme per un governo che sembra voler tornare all’epoca del proibizionismo.
Mentre l’Ue apre le porte a nuove tecniche di coltivazione, riconoscendo i benefici dell’agricoltura idroponica per la Politica Agricola Comune (PAC), l’Italia si barrica dietro il Ddl sicurezza del governo Meloni, che ha dato uno stop alla cannabis light. Un passo indietro che fa stridere i denti non solo agli imprenditori del settore ma anche a chi crede in un’Europa unita e progressista.
La sentenza della CGUE è chiara come l’acqua di un sistema idroponico ben funzionante: la coltivazione indoor della canapa è possibile, anzi, auspicabile. Si parla di incremento della produttività, progresso tecnico, migliore impiego dei fattori di produzione. Concetti che sembrano essere incomprensibili dalla parti di Palazzo Chigi.
Canapa, voci dal settore: un grido inascoltato per il progresso
Mattia Cusani, Presidente dell’Associazione Nazionale Canapa Sativa Italia, non usa mezzi termini: “Questa sentenza rafforza la necessità di basare le politiche nazionali su dati scientifici e sul rispetto delle normative europee”. Un invito al governo italiano a riconsiderare le misure proposte nell’Articolo 18, per evitare di danneggiare un settore che offre lavoro a circa 15 mila persone e genera un fatturato annuo di 500 milioni di euro. Numeri che, evidentemente, non fanno abbastanza rumore nei corridoi del potere.
Il governo Meloni difende la sua posizione sostenendo che le limitazioni servano per evitare il commercio illegale di infiorescenze e derivati per uso ricreativo. Un argomento che suona come una scusa mal congegnata, soprattutto alla luce della sentenza europea che sottolinea come l’unica limitazione possibile sia quella basata sull’evidenza empirica di rischi per la salute pubblica.
Le associazioni di filiera invocano una riconsiderazione dell’articolo 18 del Ddl sicurezza, chiedendo una regolamentazione basata su evidenze scientifiche e lo sviluppo sostenibile del settore. Ma le loro voci sembrano perdersi nel vuoto di una politica sorda alle istanze di modernità e progresso.
Dalla Corte Ue un segnale chiaro
La sentenza della CGUE è un monito chiaro: non sarà più possibile limitare il commercio e la coltivazione di canapa sativa L in modo arbitrario, ma solo se effettivamente sussistono rischi per la salute pubblica. Un principio che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto, ma che in Italia sembra essere considerato come una provocazione.
Il contrasto tra l’approccio europeo e quello italiano sulla questione della canapa è emblematico di una divergenza più ampia. Da un lato, un’Unione europea che cerca di bilanciare innovazione, sviluppo economico e tutela della salute pubblica. Dall’altro, un’Italia che sembra voler rimanere aggrappata a vecchi pregiudizi e paure infondate.
La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potrà l’Italia permettersi di andare controcorrente rispetto alle direttive europee? La canapa appare essere solo la punta dell’iceberg di un disallineamento più profondo tra le politiche nazionali e quelle comunitarie. La strategia di Meloni di voler pesare in Europa facendo la sovranista in Italia è uno sgretolamento continuo a suon di sentenze.