La condanna a tre anni dello studente egiziano laureatosi a Bologna, Patrick Zaki, dice molto dell’Egitto e dice molto dell’Italia. Non è un punto di arrivo, al di là della conclusione dell’iter processuale. Del presidente egiziano Al Sisi ci dice che nonostante il digrignare di denti le autarchie sono talmente fragili da avere paura anche di un giovane ragazzo.
Una custodia cautelare di 22 mesi in condizioni invivibili e un processo farsa durato più di un anno ci hanno restituito l’immagine di un despota terrorizzato e vigliacco come presidente. Del resto chi fosse Al Sisi lo sapevamo già leggendo le cicatrici del cadavere di Giulio Regeni.
Quelle mani sporche di sangue però hanno l’impronta anche di mani italiane – di ministri di diversi governi – che con l’Egitto hanno barattato la verità e la giustizia con armi e soldi. I fiancheggiatori del carnefice hanno nomi e cognomi. La condanna di Zaki dice molto di noi, di questo nostro povero Paese che lecca i dittatori inebriato dal loro denaro per simulare poi un po’ di dispiacere utile a mantenere una parvenza di dignità.
Nel 2021 però il Parlamento italiano ha votato all’unanimità la cittadinanza italiana a Zaki. Ieri quindi hanno ingiustamente condannato un italiano. A questo punto non ci sono troppe alternative. O il governo difende un suo cittadino costi quel che costi (e costa parecchio) oppure decide di imboccare la via della vergogna e della viltà, mettendo anche Zaki nel cassetto dei cittadini immolati sull’altare delle armi e dei soldi.