La battuta è sin troppo facile, quanto drammaticamente vera: la classe operaia non esiste più. Esattamente come risulta sempre più difficile rintracciare anche un ceto medio, quello che fu la piccola borghesia, protagonista degli anni ’50 e ’60 in Italia, ma ora di fatto in estinzione. E, nel contempo, aumentano disuguaglianze, sotto tutti i punti di vista. Generazionali, tra Nord e Sud, economiche. Questo è, in estrema sintesi, il quadro, desolante, tratteggiato dall’Istat nel consueto appuntamento annuale. Ma partiamo dalle nuove classi sociali. Si legge nel rapporto: “La perdita del senso di appartenenza a una certa classe sociale è più forte per la piccola borghesia e la classe operaia”, osserva l’Istat.
I nove gruppi – L’istituto però non si limita a prendere atto della disgregazione dei gruppi tradizionali della società italiana, ma ne propone una ricostruzione originale, che suddivide la popolazione (stranieri compresi) in nove nuovi gruppi: i giovani blue-collar e le famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri, gruppi nei quali è confluita quella che un tempo era la classe operaia; le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia, nei quali confluisce invece la piccola borghesia; un gruppo a basso reddito di anziane sole (le donne vivono di più rispetto agli uomini) e di giovani disoccupati; e infine le pensioni d’argento e la classe dirigente. In questa classificazione incidono vari fattori, il più importante è il reddito, che viene valutato in termini di spesa media mensile: si va dai 1.697 euro delle famiglie a basso reddito con stranieri, agli oltre tremila delle famiglie di impiegati e delle pensioni d’argento fino alla classe dirigente che supera di poco i 3mila 800 euro mensili. Curiosità: i poli opposti si equivalgono, dato che nella classe dirigente sono rinvenibili 4,6 milioni di persone; nelle famiglie a basso reddito 4,7 milioni. Certo, poi abbiamo tutte le suddivisioni intermedie, nelle quali il gruppo più numeroso – 10,5 milioni di persone – è quello in cui troviamo operai in pensione e famiglie monoreddito. Ma resta il dato più preoccupante: crescono le famiglie a rischio di povertà ed esclusione sociale, il 28,7% della popolazione.
Ragazzi abbandonati – Non stupisce – ma proprio per questo dovrebbe far riflettere – che resiste il dualismo territoriale del Paese: nel Mezzogiorno sono più presenti gruppi sociali con profili meno agiati, al Centro-nord gruppi sociali a medio o alto reddito, anche se le famiglie a basso reddito con stranieri, per scelte lavorative e minori legami territoriali, risultano prevalentemente residenti al Settentrione. Così come gli anziani abbondano nel Sud. Ma, in realtà, l’invecchiamento della popolazione coinvolge tutto il Paese. Al primo gennaio 2017 la quota degli ultra sessantacinquenni raggiunge il 22%. Un dato che va aggiunto a un nuovo minimo delle nascite (474mila) registrato nel 2016. E, nel frattempo, pure i giovani sono scomparsi. Nell’ultimo decennio, non a caso, l’Italia ha perso 1,1 milioni di 18-34 anni. E, come se non bastasse, quelli che sono rimasti vivono con i genitori: il 68,1% degli under 35, si tratta di 8,6 milioni di individui. Ma non basta. Perché il reddito insufficiente influisce anche sulla salute: negli ultimi 12 mesi ha rinunciato a una visita specialistica il 6,5% della popolazione, nel 2008 la quota si fermava al 4%.
Le reazioni – Ovviamente un quadro così desolante non poteva che essere commentato dalla nostra classe politica. E se ha fatto gioco alle opposizioni (i 5 Stelle hanno parlato di prova della “gestione fallimentare”) del Governo, c’è stato anche chi ha difeso il quadro. Come Ivan Scalfarotto che, nell’evidente quadro nero, ha cercato di far notare il “forte slancio dell’export italiano nei Paesi extra Ue”. Bene. Ne saranno contenti i giovani che, intanto, stanno a casa per mancanza di lavoro e opportunità.