Di Giuliano Balestreri per Repubblica
La Camera dei deputati lavora al nuovo bilancio pluriennale. La presidente Laura Boldrini promette per il prossimo 21 luglio nuovi tagli alla spesa e risparmi corposi: dalla ristorazione con la riduzione del contributo fisso, agli affitti che costano 40 milioni l’anno. Ma il vero nodo della politica italiana sono gli stipendi. Dei dipendenti, più che dei deputati. I quasi 1.500 lavoratori di Montecitorio costano 310 milioni di euro, cui vanno aggiunte le spese per i pensionati: altri 227 milioni di euro. Insieme pesano per il 50,9% delle spese della Camera, che si aggirano intorno al miliardo di euro l’anno. Numeri che fanno impallidire quelli dei 630 deputati: questi, insieme coi colleghi pensionati, valgono “appena” il 25% dei costi, 130 milioni per gli onorevoli in carica e 138,9 milioni per i vitalizi.
Oneri che appaiono insostenibili in un Paese dove la disoccupazione è stabile intorno al 13%, la cassa integrazione vola verso il miliardo di ore annue e i contratti di solidarietà assottigliano gli stipendi alle famiglie italiane. Tagliare però non è facile. Il Parlamento gode della “autodichia” prevista dall’articolo 64 della Costituzione: in sostanza le Camere hanno una giurisdizione riservata sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene quindi definito attraverso atti interni – i regolamenti – non modificabili dalla legge. Un istituto nato dopo la dittatura per garantire l’indipendenza del legislatore, ma che negli anni ha creato privilegi oggi insostenibili
e quasi inattacabili. Anche il tetto alle retribuzioni di 240mila euro lordi stabilito dal governo Renzi non ha in alcun modo scalfito le sicurezza dei dipendenti di Montecitorio.
Ci sta ora provando il presidente Boldrini, ma per raggiungere un risultato concreto deve vincere le resistenze di una selva di 25 sigle sindacali. Anche perché gli anni di privilegi hanno livellato molto gli stipendi, ma verso l’alto. E tagliare il salario del segretario generale e del suo vice (406mila euro l’anno e 304mila euro, esclusi gli oneri previdenziali e le indennità di funzione da 660 euro al mese) a 240mila euro annui vorrebbe dire avvicinarlo troppo a quello di un tecnico documentarista o di un ragioniere con una decina di anni di anzianità.
Se la Boldrini riuscisse nell’impresa, sarebbe la fine di alcuni casi di remunerazioni che stridono con quelle presenti nel resto del Paese. Oggi barbieri, elettricisti, autisti e centralinisti entrano con uno stipendio imponibile lordo di 30mila euro l’anno cui si aggiungono contributi previdenziali per altri 5.300 euro: dopo 10 anni la retribuzione sale oltre i 50mila euro, ma a fine carriera un barbiere o un centralinista con 40 anni di servizio guadagna circa 136mila euro (al netto di 24mila euro di contributi previdenziali). I commessi (nel rapporto di 0,7 per deputato) per un lavoro non diverso da quello di un usciere d’albergo guadagnano addirittura di più.
Non si possono lamentare neppure i ragionieri e i consulenti. Certo il processo di selezione non è dei più semplici, ma neppure complesso come un concorso da diplomatico o da magistrato. Eppure lo stipendio d’ingresso alla Camera è da favola: 39mila euro annui per i primi, 64mila per gli altri. Salari più che raddoppiati dopo 10 anni e che a fine carriera arrivano a 238mila e 358mila euro l’anno. Sempre al netto dei contributi previdenziali.