Un po’ complice la crisi, un po’ il silenzio di politici ed economisti, un po’ i giochi dei poteri forti di turno, in Italia l’economia sta diventando palesemente illiberale. Non che lo Stato abbia mai lasciato il campo davvero libero al mercato, assediato da burocrazia e tasse micidiali, ma l’accentuato dirigismo pubblico degli ultimi anni e adesso persino il possibile ricorso al golden power nella partita Telecom gettano via la maschera di un Paese dove le imprese contano niente. Una deriva che sta bene a tutte le partiti politiche, nessuna esclusa. Basti pensare al capolavoro della destra berlusconiana, che insieme a Banca Intesa impose da Palazzo Chigi il salvataggio dell’Alitalia. O ai governi Renzi e Gentiloni, con due interventi “di sistema” come i salvataggi dell’Ilva e del Monte dei Paschi di Siena. Una logica a cui non sfuggono neppure i Cinque Stelle, che nella maggiore città in cui governano stanno salvando un’azienda pubblica fallita come la Multiservizi affidandole una serie di opere che saranno così sottratte a una normale gara tra i possibili concorrenti privati.
Si tratta sempre di soluzioni che servono a tutelare un gran numero di posti di lavoro – e la più facile delle repliche – ma se a ogni disastro è sempre lo Stato che mette le mani in tasca (e di riflesso le mette nelle nostre tasche tassandoci) alla fine non c’è da meravigliarsi se qui i privati ci stanno finché si guadagna e poi sono lesti a tagliare la corda. Negli anni degli affari facili, dell’economia in crescita, delle concessioni champagne (dalle televisioni alle autostrade, dalla telefonia alle spiagge, ad altri monopoli) questo mercato “in libertà vigilata” ha fatto contenti un po’ tutti. L’Erario ha fatto un po’ di cassa, i privati che sono riusciti a sedersi alla mangiatoia ne hanno fatti di più, e alla fine qualcosa dalla tavola del ricco è finita pure alla collettività. Adesso però che le vacche sono magre, questo sistema è saltato e alla politica non resta che far cadere anche l’ultima foglia di fico che copriva la vergogna di un Paese dove l’economia sfugge alle più elementari regole di mercato. Un vizio italiano che signori come il grande governatore di Bankitalia Donato Menichella e il fondatore di Mediobanaca Enrico Cuccia esprimevano nella famosa considerazione che in Italia le azioni non contano ma si pesano, togliendo ogni dubbio sul fatto che un’azione in mano agli Agnelli (per dire) vale più di mille azioni in mano al signor Pinco Pallo di turno. Se poi l’azionista forte è lo Stato, è chiaro che non ci sarà mai privato, banca estera, fondo d’investimento o capitale internazionale disposto a scommettere il proprio denaro in Italia. Qui infatti non basta metterci i soldi, ma si deve sperare che non si cambino le regole del gioco a partita iniziata. E se alla fine si è vinto, non arrivi qualcuno che butti tutto all’aria, perché c’è alibi dell’interesse pubblico o altre amenità simili.
Penosi alibi – La vicenda più eclatante in questo senso è oggi quella di Telecom. L’ex monopolista della telefonia al cui timone sono saliti i francesi di Vivendi con grande sollievo di tutti al momento dell’annuncio, aveva bruciato moltissimo valore e gli spagnoli di Telefonica che scappavano ci hanno rimesso un pozzo di soldi, insieme agli azionisti “di sistema” italiani Mediobanca, Generali e Banca Intesa, per non parlare di Benetton e Fossati. Finché i francesi hanno fatto gli azionisti di riferimento senza rompere le uova nel paniere della politica tutto è filato liscio e a nessuno è venuto in mente di scoprire se c’era differenza tra l’essere azionista di riferimento e controllore della società. Poi è arrivato il passo falso dell’assalto a Mediaset – formalmente controllata dalla famiglia di un leader politico di opposizione, ma di fatto blindato dal Governo più che se stesse in maggioranza – e il gruppo guidato dal finanziere bretone Vincent Bollorè ha iniziato a passare le pene dell’inferno. Telecom in realtà era stata già massacrata sempre dalla solita politica dirigista di Palazzo Chigi, da dove si sono create le condizioni per far prendere all’Enel guidata dai manager scelti da Matteo Renzi e non all’azienda certamente più specializzata in telefonia i ricchi appalti per la costruzione della rete in fibra. Enel e Cassa Depositi hanno dato così vita a Open Fiber e improvvisamente Telecom non solo è stata rappresentata come incapace di fare quello che è da sempre il suo lavoro, ma è stata pure messa in mora per aver annunciato delle migliorie alla propria rete Tlc già esistente li dove deve passare (vedremo chissà quando) Open Fiber.
La morsa – Nel frattempo, oltre alla minaccia dell’uso della golden power per prendersi il controllo della società dei telefoni, sono arrivate una serie di “meravigliose” azioni di disturbo, dalla Consob che potrebbe imporre ai francesi di consolidare l’enorme debito di Telecom all’allarme per il controllo di aziende come Telsy e Sparkle, imprese che gestiscono una la telefonia criptata del Governo e dell’esercito, e l’altra i 560 mila Km di cavi con cui l’Italia è collegata telefonicamente al mondo. Invece di lasciare Telecom in balia del mercato e semmai scorporare e far diventare pubbliche (pagando il giusto) solo gli asset strategici, proprio la scusa di questi asset diventa ora il pretesto per far ricadere sotto il controllo pubblico tutta la società dei telefoni. Una prospettiva che non solo fa paura per il modo con cui lo Stato ha già dimostrato di saper essere in molti campi un pessimo imprenditore, ma che dovrebbe far inorridire chi ha una visione minimmamente liberista dell’economia. Ma che segnale si dà ai mercati se li si invita a investire in Italia e poi quando lo fanno gli si toglie quello che hanno comprato? Una fesseria tale e quale a quella che sta combinando Emanuel Macron con i cantieri navali conquistati dalla nostra Fincantieri. Tanto che è difficile non leggere l’azione su Telecom come una ritorsione anche su questa partita.