Tanto se ne sente parlare ma forse in pochi conoscono nel concreto l’uso massiccio che, specie negli ultimi anni, gli Stati occidentali fanno dei droni militari. Basti questo: secondo quanto ricostruito da un dossier pubblicato dall’Isituto di Ricerche internazionali Archivio Disarmo (Iriad), a livello globale il mercato dei droni passerà da un valore di 486,1 milioni di dollari nel 2016 (di cui 478,3 riguardanti il settore militare) a più di 980 milioni nel 2021. Una crescita clamorosa, dunque, che deve il suo la alla guerra gobale contro il terrorismo inaugurata da George Bush nel 2011. Parliamo, sottolinea il corposo dossier, della controvera pratica del targeted killing, ovvero “le uccisioni extragiudiziali di possibili terroristi in contesti di non guerra attraverso attacchi dal cielo mirati”. Il motivo è presto detto: se per gli Stati che usufruiscono dei droni ci sono evidenti vantaggi operativi, economici e politici (il drone è un formidabile protettore delle vite umane del paese che lo arma), ci sono altrettanto palesi danni collaterali per i Paesi colpiti. In primo luogo, non esistono dati certi sia sul numero totale delle vittime, sia sulla loro qualifica di civile o combattente, tanto che nessuna delle fonti istituzionali o private è in grado di fornire cifre esatte. L’esempio è lampante: gli Usa hanno dichiarato che nel periodo 2009-2015 in 473 attacchi condotti in Afghanistan, Iraq e Siria, sono stati eliminati tra i 2.372 e i 2.581 terroristi. In secondo luogo, le stesse fonti ufficiali escludono i dati minimi e massimi, che le vittime civili nelle aree considerate oscillano mediamente tra il 10 e il 20% del totale delle vittime: di cui tra il 25 e il 30% bambini.
Soldi, soldi, soldi – Ciononostante, però, sembra che tali evidenti falle non preoccupino minimamente le industrie armate e chi le foraggia, a cominciare dall’Unione europea. Non è un caso che i droni siano entrati ufficialmente nell’agenda politica europea già nel 2002, quando la Commissione Ue pubblicò “Star 21”, il cui scopo era proprio quello di definire il mercato per l’industria europea e di avanzare richieste di sussidi per la ricerca in materia di difesa e sicurezza. Un ottimo stratagemma considerando che l’Europa non potrebbe finanziare esplicitamente le industrie armate. Eppure già da allora a godere dei fondi furono tra le principali industrie belliche (da Bae Systems alla Israel Aerospace Industries). Da allora i finanziamenti sono stati pressoché intinterrotti: secondo l’osservatorio indipendente Statewatch, almeno 315 milioni di euro di fondi per la ricerca (repetita iuvant: per la ricerca) sono stati concessi a diversi progetti su droni, finanziando ancora una volta le imprese di armamenti europee.
Italia in prima linea – E per quanto riguarda il nostro Paese? Presto detto: il rapporto, non a caso, si sofferma lungamente sul caso italiano, con tutti gli interessi e gli affati delle principali aziende militari. Non a caso è immaginabile che pure la nostra Aeronautica militare presto si doterà di droni armati. Un esempio? Due anni fa la Difesa ha firmato un contratto da 160 milioni di dollari con la General Atomics per armare i sei droni italiani MQ-9 Reaper. E come se non bastasse lo stesso anno l’Aeronautica ha acquistato per 180 milioni dalla Piaggio Aero Industries (proprietà dell’emirato arabo di Abu Dhabi) tre prototipi di droni P1 Hammerhead, ora in fase di sperimentazione. Finita qui? Certo che no. La Selex ES, società controllata da Leonardo, da diversi anni è presente sul mercato con il drone “Falco”. Oltre 50 esemplari sono stati venduti da Giordania, Pakistan, Turkmenistan e Arabia Saudita. Stati che non brillano per il rispetto dei diritti umani. Ma tant’è: l’Italia pare non farsi problemi. Né tantomeno l’Europa, vista la decisione, già avallata da Jean-Claude Juncker, di creare un fondo (per la prima volta) da miliardi di euro per finanziare direttamente la ricerca squisitamente militare.
Tw: @CarmineGazzanni