Di Carola Olmi
Le armi italiane non hanno ancora sparato un colpo in Iraq, ma qui da noi fanno già rumore e feriti. Al fronte, la battaglia tra miliziani islamici e forze curde segna i primi cedimenti per i terroristi dell’Isil, respinti dalla diga di Mosul, conquistata il 7 agosto scorso. L’infrastruttura, fondamentale per non lasciare metà del Paese senza energia, ora è di nuovo in mano alle truppe sostenute dai bombardamenti statunitensi e dalla promessa di aiuti europei. Mentre i caccia Usa però già bombardano, permettendo alla popolazione di cercare scampo dai massacri, le armi europee restano lontanissime. E in Italia, manco a dirlo, è già polemica sull’opportunità di fornire di armi in nostro possesso una delle parti in lotta. Naturale che in politica estera non contiamo niente nel mondo.
Cinque Stelle in trincea
Dopo la sconsiderata sortita del deputato Alessandro Di Battista (“i ribelli non hanno altra scelta che il terrorismo”, ha detto, come se sgozzare migliai di civili inermi sia un’opzione accettabile) ieri il Movimento 5 Stelle si è schierato contro l’invio di armi ai curdi. Alimentare la guerra ai jihadisti “sarebbe un gravissimo errore da parte del nostro Paese”, dicono i grillini che dopo l’informativa del governo già in programma per domani alle commissioni Difesa e Esteri riunite, chiederanno che sulla questione si pronunci il Parlamento con un apposito voto. Le armi in questione sono in gran parte mitra e sistemi di puntamento di provenienza sovietica sequestrate dal nostro esercito nel Balcani nel 1994. Dunque neppure un grande aiuto per le forze regolari, che però sono abituate proprio a quel genere di armamenti e dunque saprebbero utilizzarli. Oggi contro l’Isil, ma domani chissà contro quali altri obiettivi. “Chi ci dice che una volta vinta la guerra i curdi non utilizzeranno quelle armi sui civili sunniti?” si chiede il senatore grillino Maurizio Santangelo.
Fuoco amico
E fuoco, questa volta apparentemente amico sul governo arriva anche dal Nuovo Centrodestra, che torna così a mettere i bastoni tra le ruote dell’esecutivo (è il ministro Mogherini a sostenere la necessità di armare i curdi). A premere il grilletto è il solito Fabrizio Cicchitto: “In primo luogo – ha detto – bisogna fornire di aiuti umanitari le popolazioni colpite in Iraq da un genocidio messo in atto dalle truppe dell’Isil. Detto tutto ciò è bene che in Europa e negli Usa nessuno pensi che fornendo un po’ di armi ai Peshmerga questi siano in grado di risolvere un problema che è innanzitutto dell’Occidente nel suo complesso”.
Lo scontro sul campo
Fino a ieri i raid aerei americani sono stati almeno 14. un fiume di fuoco che ha convinto i miliziani a ritirarsi, ma non per fuggire bensì per cambiare tattica sul terreno, rallentatando il ritorno dei peshmerga con mine e trappole artigianali tipiche della guerriglia. Ciò nonostante, le truppe curde hanno ripreso il controllo di Batnaah, Sharafiya e Tel Skuf, tre città inserite nell’auto-proclamato Califfato voluto da Abu Abu Bakr al Baghdadi. La risposta dell’Isis si è sentita a un centinaio di chilometri da Bagdad, con la distruzione del ponte di Fadiliyah dopo violentissimi scontri
Bagdad trema
Le sorti della guerra sono dunque molto incerte. L’Iraq è una polveriera e le due uniche cose sicure sono la brutalità dei jihadisti e l’importanza della diga di Mosul appena riconquistata. A sottolineare questo aspetto è stata ieri la Casa Bianca. Secondo gli Usa, infatti, i miliziani pensavano di usare la diga come arma per inondare le zone che non sono sotto il loro controllo. Un crollo o l’apertura delle paratoie della diga avrebbero minacciato non solo i civili iracheni ma anche l’ambasciata Usa a Baghdad. Per questo – è stato fatto osservare – gli Stati Uniti continueranno a colpire l’Isis. Mentre l’Europa beatamente latita.